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 2018  novembre 19 Lunedì calendario

Un Macbeth di plastica per Michieletto

Un Macbeth di plastica. Con teli di nylon che diventano il filtro tra il mondo reale e l’aldilà. O una sorta di inquietante placenta che partorisce le profezie delle streghe. Ma anche il buco nero che ingoia i protagonisti in un abisso di delitti. «Ogni spettacolo ha bisogno di un elemento che lo sintetizzi, una leva che smuova il masso, altrimenti il masso resta lì. E questo materiale plastico, traslucido che ti permette di vedere ma non troppo, che puoi manipolare per creare suggestioni, me restituisce il pensiero di questa tragedia in bilico tra malattia e allucinazioni».
Damiano Michieletto presenta la sua regia che inaugura il 23 novembre (la prima andrà in diretta su Rai Radio3, alle 19, repliche fino al primo dicembre) la stagione della Fenice di Venezia: il Macbeth di Verdi, con la direzione del Maestro Myung-Whun Chung e Luca Salsi nel ruolo del titolo. Il soprano Vittoria Yeo è la Lady, Simon Lim è Banco, Stefano Secco è Macduff. Scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti, luci a cura di Fabio Berettin. 
Per Michieletto, regista veneziano, 43 anni, premio Abbiati e Laurence Oliver Awards, si tratta della nona produzione realizzata con la fondazione veneziana e il primo degli appuntamenti in Italia (l’altro è al Costanzi di Roma con La Vedova Allegra, dal 14 aprile 2019), in un calendario soprattutto europeo tra il Die ferne Klang di Franz Schreker in scena all’Opera di Francoforte dal 31 marzo 2019 e Alcina di Händel con Cecilia Bartoli al Festival di Salisburgo, il prossimo giugno, dove torna dopo quasi 5 anni. Debutto nella prosa, successo nella lirica e un sogno nel cinema, l’artista visionario che scalda e sfida le platee più prestigiose, sostiene che un’opera lirica non debba essere un’operazione celebrativa del passato, ma «un evento che dialoghi con il presente e susciti un’emozione». 
Quali emozioni suscita la plastica?
«Crea una tensione. L’idea drammaturgica e artistica nasce proprio dal libretto che parla del velario delle streghe. E così, ecco questi grandi veli che scivolano avanti e indietro, che fluttuano dall’alto, trasformandosi in una grande bolla che genera il mondo onirico delle streghe, nel telo che avvolge i defunti, nel sipario che nasconde i misteri e il passato di una coppia dilaniata dalla morte della propria figlia».
Una sanguinaria scalata al potere che nasce come un affare di famiglia?
«Il lutto determina la spaccatura tra moglie e marito e segna l’impossibilità di avere un futuro. Senza figli, loro devono uccidere per arrivare al trono. Lui, Macbeth, regredisce all’infanzia, lei sviluppa un’ossessione per il potere. Un rapporto malato di una madre con il proprio bambino, quasi lo allattasse con la sua follia per portarlo verso un potere insanguinato».
Il trono è un’altalena.
«Dondola. È il trono da dove scenderà la corona. Ma è anche un gioco da bambini che scatena il ricordo del dolore insostenibile che ha condotto entrambi in un buco nero».
Le altalene si moltiplicano e diventano un groviglio di catene.
«Una foresta, la foresta di Birnam. Una giungla di ferro che si alza e si trasforma in altalene. E troni».
In quale modo fa dialogare Shakespeare e Verdi con il mondo di oggi?
«Uno spettacolo non dovrebbe né celebrare né attualizzare il passato. O almeno non è quello il punto. Centrale è l’emozione. E contemporanea è un’opera che ti riguarda, a prescindere da quando sia stata creata».
E la musica contemporanea perché viene rappresentata raramente?
«Fondamentale è che la musica sia bella, non nuova. I compositori di oggi fanno fatica a trovare un linguaggio. Bisognerebbe invece seguire l’istinto e liberarsi dalle etichette: musical, opera, musica leggera... Bernstein era pazzesco. Dirigeva i Wiener e scriveva West Side Story. Mi piacerebbe molto fare la regia di un suo lavoro».
E, a proposito di steccati da superare, le piacerebbe anche un’opera al cinema?
«Più che un piacere, è un sogno».