Il Messaggero, 19 novembre 2018
Internet è l’unico posto dove le persone non mentono
Nel 2009 Google ha introdotto GTrends, uno strumento capace di rivelare quante persone, in una determinata area, stanno cercando un termine specifico – ieri ad esempio, in Italia, era terremoto. Seth Stephens-Davidowitz, un ex scienziato dei dati di Google e giornalista del New York Times, da tempo sostiene che questa classificazione data a miliardi di ricerche sia una risorsa rivoluzionaria e costituisca «il più importante set di dati mai raccolto sulla psiche umana» perché è in grado di «rivelare un mondo nascosto molto diverso da quello che pensiamo di vedere».
In tal senso Big G è La macchina della verità. E proprio questo è il titolo del libro di Davidowitz appena arrivato in Italia per Luiss University Press (256 p., 20 euro). Partendo da Google Trends il giornalista ha dimostrato come quasi tutto quello che si sa sulle persone sia sbagliato. Perché? Semplicemente perché le persone mentono. Lo fanno sempre e comunque, con amici, parenti, partner e datori di lavoro. Mentono alle ricerche di mercato, ai sondaggi elettorali e al medico, sono pronti a mentire perfino a se stessi. C’è solo un luogo dove tutti si sentono completamente liberi, dove possono esprimere qualsiasi desiderio, dove è possibile soddisfare ogni più strana e perversa curiosità: questo posto è Internet, e il loro più fedele confidente si chiama Google.
GLI ALGORITMI
Nell’era degli algoritmi ogni azione in rete viene tracciata, registrata e analizzata, per cui il motore di ricerca e i vari social network potrebbero, in qualunque momento, dirci chi siamo veramente. Molto più dei tradizionali sondaggi a cui chiunque cerca di dare un’immagine migliore di sé: si chiama bias della desiderabilità sociale. L’esempio portato da Davidowitz è abbastanza esplicito. Gli utenti di Google «cercano porno più di quanto cerchino meteo. Tuttavia è difficile riconciliare tutto questo con i dati dei sondaggi, poiché solo il 25 per cento circa degli uomini e l’8 per cento delle donne ammette di guardare materiale pornografico». In pratica, queste informazioni sono falsate dal comune senso del pudore, e quindi inutili.
È esattamente quello che è accaduto nei sondaggi per le presidenziali americane del 2016, quelle che hanno portato Donald Trump alla Casa Bianca. Evento che Davidowitz, insieme a pochissimi altri, aveva previsto proprio grazie a GTrends. Più che voler rivoluzionare l’approccio alla statistica, quello del giornalista è un tentativo di far comprendere cosa è possibile fare maneggiando i Big Data. Una sorta di demistificazione della scienza dei dati che passa per aneddoti e storielle leggere, anche autobiografiche. Ad esempio l’autore, dopo anni che si presentava al banchetto per il giorno del ringraziamento da solo, racconta di essere stato subissato dalle domande poste da tutto il parentame. Ognuno aveva un’idea diversa su quale tipo di ragazza fosse ideale per lui. Un vociare a cui chiunque a un certo punto della propria vita è stato sottoposto, eppure a casa Davidowitz l’unica voce che viene seriamente presa in considerazione, anche dagli altri commensali, è quella della nonna.
IL FLUSSO
Perché? «A ottantotto anni ha visto più cose di tutti gli altri. Ha osservato più matrimoni, molti che hanno funzionato e molti che invece sono falliti. E nel corso dei decenni ha catalogato le qualità che occorrono per far riuscire una relazione». A quella tavola, per quel tipo di domanda, la signora Davidowitz aveva accesso al numero più alto di informazioni. In quel caso la «nonna era i Big Data». «In un giorno medio della prima parte del Ventunesimo secolo» gli essere umani generano 2,5 miliardi di byte di dati. Si tratta di un flusso così crescente di informazioni che quelle accumulate nel corso degli ultimi due anni ha superato l’ordine dei Zettabyte – ognuno di questi equivale a un triliardo di byte – una quantità assurdamente grande che pone il vero quesito relativo ai Big Data: come decodificarli e renderli vantaggiosi, non solo a livello economico. Nonostante il generale senso di inconsapevolezza, i Grandi Dati scandiscono costantemente la quotidianità di tutti: dai telefoni, alla carte di credito usate per gli acquisti, dalla televisione agli storage necessari per le applicazioni dei computer, dalle infrastrutture intelligenti delle città, fino ai sensori montati sugli edifici, sui mezzi di trasporto pubblici e privati.
LE PAROLE
Oggi tutto è Big Data. Come spiega anche il giornalista siamo quello che cerchiamo: «le parole sono dati, i clic sono dati. I link sono dati. I refusi sono dati. Il tono di voce è un dato. Ansimare è un dato. I battiti del cuore sono dati. Le ricerche però sono i dati più rivelatori». Google, di fatto, è diventato il confessore dei nostri peccati 2.0. E se lo scenario che rischia di emergere da questa mappatura delle ricerche può sembrare deprimente, c’è però qualcosa di rassicurante: analizzando i dati anonimi di milioni di persone, dice Davidowitz, scopriamo che non siamo gli unici ad avere difficoltà nella vita, nel matrimonio, sul lavoro, in amore, nel sesso. Perché a scorrere la timeline di Facebook, a volte, sembra invece che tutti abbiano una vita migliore della nostra. E invece, semplicemente, stanno mentendo.