il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2018
Intervista a Max Pezzali
Per trovare qualcuno che ce l’abbia con Max Pezzali bisogna metterci dell’impegno. I colleghi lo stimano, chi ci lavora è contento, chi lo presenta sa che basterà un “la” per farlo parlare minuti interi. Sta in tv, ma non è un animale televisivo. È il nerd che ce l’ha fatta senza nemmeno essersi premurato di fare l’hipster. È il giudice del talent show (The Voice) che non se la prende (e poco importa, se questo giovi o meno allo spettacolo). È quello che al tavolo di Che fuori tempo che fa (Rai1) non sgomita mai, anche se avrebbe “spiegoni” che niente dovrebbero invidiare a molti altri del piccolo schermo. Tutti misteri imperscrutabili, raggiungere così tanti diversi livelli di pubblico musicale, senza l’ombra di un effetto speciale o stratagemmi poetici. L’anno scorso, ripercorrendo i venticinque anni di carriera, raccontava gli esordi con Mauro Repetto (883) a scriver brani in cantina, quasi ingenuamente. A Rolling Stone ha detto: “Eravamo naif”.
Oggi si potrebbe ancora usare questa parola, “naif”, per un emergente? Ci crederebbe qualcuno?
L’etica del Do It Yourself è valida oggi come allora. Anzi di più, perché c’è una latitanza di cercatori di talenti. Per superare però la soglia del già visto tocca avere un’attitudine alla promozione. Devi essere un content creator e capire in maniera consapevole come attrarre il tuo pubblico.
Il che crea pubblico verticale, più che trasversale.
Oggi ci sono due tipi di rischi: quello generazionale, che lascia indietro chi non ha dimestichezza con certi mezzi. Ho un figlio piccolo, e per lui esiste un solo mezzo di comunicazione, internet: Youtube per l’audio video, Instagram per il resto. Il secondo tipo di rischio è che la sovrabbondanza di offerta porti un appiattimento della domanda. Rischi di avere un successo di sei mesi e non avere la possibilità di andare oltre. Se fai una cosa che suona molto “2017”, sei fottuto.
Un bel rischio per una serie di trapper dell’ultima ora.
La trap è un genere che ho scoperto anni fa, nasce da una sperimentazione interessantissima con la dub e offre grandi spunti. Ora, avendo elementi sonori estremamente riconoscibili e stilemi molto precisi, rischia di diventare la parodia di se stessa. Sarà interessante capire invece, come si evolverà.
Fuori i nomi.
Mi piace il lavoro da producer che fa Charlie Charles. Sfera Ebbasta è destinato a rimanere, perché ha una sua cifra anche a livello comunicativo. E poi, anche se non è un trapper in senso stretto, Ghali è da mainstream. Ha il physique du rôle, un’eleganza e un modo di porsi che potrebbe stare ovunque, dal ballo di fine anno a Vienna al centro sociale.
E Pezzali che fa?
Lavoro a canzoni nuove senza l’incubo della scadenza. È il vantaggio di aver superato i 51.
E avere alle spalle una carriera solida. Bisogna poterselo permettere.
È anche una questione di età: quando hai vent’anni, hai l’ansia da prestazione di voler dire qualcosa. Cambia il tempo percepito. Vorrei che i prossimi brani fossero contemporanei, ma non troppo legati al qui e ora.
Una riappropriazione del tempo. Anche in tv sembra avere un ritmo tutto suo.
Sono molto lontano dalla tempistica della tv moderna, che ha subito e subirà lo spauracchio della soglia dell’attenzione che dura pochi secondi. La forza di Fabio Fazio è proprio la capacità di gestire gli spazi: lascia agli ospiti assoluta libertà. Dà la possibilità di fare la tv, come dire, alla francese, con un tavolo, senza passaggi obbligati. Il filo rosso lo scopri strada facendo.
La calma in tv è merce rara.
Il più grande errore che fa la televisione è imitare la rete. Sono linguaggi diversi ed è giusto che lo siano. Se tu già progetti in ottica di frammentazione, lotterai con i mulini a vento. Fabio ha una cultura umanista e ha capito che ci si può riappropriare dell’approfondimento anche con temi meno seri. Lì, paradossalmente, è la rete che ti viene dietro con format simili.
Se le offrissero la conduzione di un programma?
Non sarei in grado e credo che la televisione oggi abbia bisogno di chi la sa fare.
Cosa ne pensa dei numerosi padri fondatori che alzano le mani dicendo “non doveva finire così”?
Faccio una necessaria retrospettiva: mi sono collegato a internet per la prima volta nel 1994 con modem che sarebbero preistoria industriale e ho salutato la rete come la grande equalizzatrice dell’umanità, come abbiamo fatto tutti all’epoca. In quella metà degli anni Novanta mai avrei potuto immaginare che potesse diventare così presente nella vita di tutti. Ma non solo la nostra, ché ci paghiamo il parcheggio via app, ma anche quella di mio padre che è del ’42 e senza la procedura online passa 52 giorni in fila all’Inps per i conteggi. Ora, però, tocca essere seri: la ragione per cui è diventata di tutti è meramente commerciale.
Bene, premessa ricevuta.
Come fai a pensare che qualcuno ti metta a disposizione gratuitamente una tecnologia costata miliardi di dollari di sviluppo e altrettanti di mantenimento? Non importa a nessuno di farti arrivare in orario dal punto A al punto B, ma davvero. Quello che vogliono fare è ridurre al minimo il divario tra ipotesi e realtà dei tuoi gusti di consumatore. È sempre stato così, è solo una logica estremizzata e con mezzi diversi. È però evidente che quando metti una tecnologia così potente nelle mani di tutti se ne perde la coscienza d’uso.
E gli hater brindano.
Il vecchio nerd è snobisticamente disincantato da quello che è diventato il web in sé.
Quindi, c’è speranza?
Dipenderà tutto dal ritorno dei nerd, quelli che prima erano sfigati e poi sono diventati eroi. Zuckerberg, Bezos, Jobs che è stato il profeta della nostra era. Quando la classe da movimentista diventa governo, perde gran parte del proprio fascino, e questo vale per tutto. Non voglio fare il pasionario della rete, ma dovremmo tornare alla tecnologia fine a se stessa, a quel gusto lì, alle basi dell’informatica. Credo che dopo i contraccolpi degli ultimi anni, siamo sulla buona strada.