La Stampa, 19 novembre 2018
Storia degli Assisi, signori del narcotraffico
3 agosto 2014. “Bugno” e “Marlon” attivano una chat Blackberry criptata. Non si fidano più dei telefoni “che bruciano”, ma hanno un asso nella manica. «Tanto tra pochi giorni ci arrivano i nuovi... e non sono come questi…e per minimo due anni non c’è come ascoltarli … costano 2500 dollari… ma sono una bomba... sono attaccati al satellite. Spostano sempre la direzione... cambiano codici ogni secondo».
Bugno è rimasto sconosciuto, Marlon invece ha un nome: Patrick Assisi, Pin BlackBerry 2B9135C6. Ha 30 anni circa - è nato nel Canavese, Piemonte - e sta trattando un carico di cocaina da 88 chili che deve arrivare al porto di Gioia Tauro a bordo della nave Msc Coruna. Prima e dopo questa spedizione sono arrivati e arriveranno altri carichi: 150 kg, 90 kg, 128 kg, 200 kg. Coca pura all’85%.
La tecnica è quella del rip-off: centinaia di panetti pressati come pasta di mandorle vengono stipati in borsoni da viaggio, sistemati vicino alle portiere per velocizzare il recupero. I contractor ingaggiati dai narcos li prelevano nelle banchine. Hanno un codice cifrato su base alfa numerica per ogni container. Gli viene comunicato dai sudamericani con una foto scattata al momento del carico nei porti di Callao, Paranaguà, Rio De Janeiro, Cristobal, Santos. La inviano ai destinatari a sigillo dell’accordo criminale. Cosi, chi riceve, sa dove mettere le mani: lavoro rapido e pulito. Quel 3 agosto la Capitaneria di Porto aveva disposto che tutti i container di provenienza sudamericana venissero spostati nell’area “ispezioni” per essere controllati con gli scanner. Un maresciallo corrotto - che ha la possibilità di consultare i piani di carico delle imbarcazioni in arrivo - lo segnala a un complice della banda: «Mi dispiace – scrive – ma il bambino lo hanno preso i genitori. E’ in quella zona brutta». Patrick digita un messaggio senza appello: «Fai qualcosa, non mi interessa, devono rubarlo, sennò siamo fottuti. Cazzo se ero io lì entravo come un kamikaze. Digli di prendere quel container».
In 13 lo spostano in pieno giorno, davanti a decine di portuali. E nessuno vede niente. Secondo il Gico della Guardia di Finanza, in nove mesi tra il 2014 e il 2015, Patrick Assisi “Marlon” e suo padre Nicola Assisi, “Kawasaky”, emigrato trent’anni fa dalla Calabria in Piemonte, sono riusciti a inviare in Italia circa due tonnellate di cocaina. Il 30% è stato sequestrato nei porti intermedi lungo il tragitto verso la Calabria. Il resto è passato verso i floridi mercati della pianura padana che sommati a quelli di Gran Bretagna e Spagna conguagliano il 73% di tutte le richieste europee di trattamento per dipendenza da cocaina in Europa. Lo sostiene il rapporto annuale 2018 dell’agenzia europea delle droghe.
I carichi record di droga
Fonti qualificate dell’antidroga spiegano come sarebbero loro – padre e figlio - i re delle rotte di polvere bianca verso il nostra paese. Consultando le carte fin qui pubbliche si scopre come comprino dai narcos sudamericani («Sono in Paraguay per lavoro») a prezzi imbattibili (anche a meno di 10 mila euro al chilo) e rivendano – soprattutto - ai cartelli calabresi quintuplicando i ricavi.
Stima investigativa sulla base dell’ultima inchiesta del 2016: per ogni carico il guadagno di ognuno dei due broker è stato di 240 mila euro.Ciò li rende «personaggi di assoluto spessore criminale al servizio dei cartelli d’elite della ’ndrangheta», spiega il maggiore Andrea Caputo, comandante del nucleo investigativo dei carabinieri di Torino. Non mafiosi dunque, ma imprenditori criminali. Da alcuni mesi, negli archivi interni alle forze dell’ordine, entrambi figurano tra i trenta latitanti più pericolosi nella lista stilata dal Ministero degli Interni. Ma nessuno li trova nella sconfinata prateria del Sudamerica. Vivono «protetti più di altri», sottolinea un investigatore. Forse perché più di altri servono alla ’ndrangheta calabrese per raggiungere il suo Pil annuo di 50 miliardi di euro: l’equivalente di quattro manovre economiche di un qualsiasi governo in carica, finanziate - all’80% - col mercato della morte. Senza broker i cartelli sono molto meno competitivi in uno dei primi segmenti di mercato: quello della “pasta” di cocaina ancora da “tagliare”. E a Torino la mafia calabrese è più forte di quanto si pensi ancora: «Rispetto alla mappatura dei 9 locali di ’ndrangheta che abbiamo accertato con l’operazione Minotauro – aveva denunciato mesi fa il colonnello Emanuele De Santis, già comandante provinciale dei carabinieri – ne abbiamo scoperti altri. Lo dicono le indagini in corso. E gli Assisi, pur non rappresentando degli affiliati puri ma dei trafficanti, rivestono un ruolo di cerniera centrale nell’economia di consorterie di ’ndrangheta».
I legami
Dalle carte dell’inchiesta “Pinocchio” è emerso come uomini dei clan si fidino di loro al 100% se è vero (com’è vero) che un boss come Antonio Agresta, “Picasso”, uomo di punta delle ’ndrine nel Nord Ovest italiano, scrive nel 2015 ad Assisi nelle chat di Messenger: «Fai tu quello che sai. Noi siamo con te».Secondo suo nipote, Domenico Agresta, 30 anni, collaboratore di giustizia dall’ottobre 2016, lo zio – Antonio – «è il capo della ’ndrangheta in Piemonte».
Suo fratello Saverio e padre Domenico senior sono stati entrambi condannati per il sequestro dell’imprenditore torinese Carlo Bongiovanni messo a segno il 3 marzo del 1977, anno maledetto nella triste stagione “dell’Anonima calabrese”. Agresta, principale socio degli Assisi nella joint-venture col Sudamerica, è oggi in carcere con una condanna a 19 anni proprio per l’attività di narcotraffico in cui è stato ritenuto complice del narcos di San Giusto. I pedinamenti della Finanza documentano come partecipi («col ruolo di promotore», si legge in sentenza) alla raccolta e alla conta di 3,8 milioni di euro arrivati da San Luca e da Milano a Torino in un anonimo distributore di benzina Erg sulla provinciale che collega Leinì a Volpiano. Altri cognomi saltano fuori nell’inchiesta - Trimboli, Perre, Barbaro - che evocano dinastie storiche della ’ndrangheta aspromontana.
Le origini nel Canavese
Si occupano «di trovare una scuola di volo dotata di una pista di atterraggio in Germania per far atterrare un Falcon 50 carico di cocaina di proprietà dei fornitori brasiliani». La droga – si legge negli atti – sarebbe stata poi trasportata a Torino e Milano «attraverso la rete autostradale». Il cerchio è chiuso. Gli Assisi non sono nati dall’oggi al domani. Anzi. Nicola soprattutto ha in “pancia” un lungo “praticantato” ossequioso delle ferree trafile criminali. Fu “allievo” ad esempio di Rocco Piscioneri, morto il 12 marzo 2017, grande narcos torinese legato alle storiche famiglie mafiose di Gioiosa Jonica (Belfiore, Ursino), che negli Anni 80 gestiva una concessionaria di auto usate a Torino. Di colpo emigrò poi in Spagna a Huelva con villa e piscina al seguito. E’ morto portandosi dietro i misteri – a lui noti – sull’omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia ucciso dalla ’ndrangheta il 26 giugno 1983. Glieli aveva confidati il presunto killer del magistrato, Rocco Schirripa, condannato all’ergastolo in primo grado dalla Corte d’Assise di Milano. E con Piscioneri, Nicola Assisi fa l’esordio sulla scena criminale del narcotraffico. I due narcos figurano insieme nell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato in carcere una quindicina di persone accusate – nel 1997 – di aver importato 197 chili di cocaina dalla Spagna verso il Canavese.
Per quel “battesimo” di fuoco la Cassazione lo ha condannato a 14 anni e 6 mesi, ma quando la procura generale – nel 2008 - spiccò il mandato di cattura per esecuzione pena, Assisi era già lontano. Latitante. Lo è rimasto fino ad oggi ininterrottamente, fatta eccezione per un mese circa. E come tutti i “fantasmi” ha vissuto momenti di puro lusso intervallati da fughe rocambolesche. Ne è prova una “discreta” villa affittata al costo di 10 mila euro al mese in Portogallo.
La moglie Rosalia Falletta, la “donna nera” dell’associazione, condannata a 8 anni di carcere, lo raggiungeva tre volte all’anno insieme con altri parenti. In 12 mesi hanno speso 20 mila euro in biglietti aerei.
L’arresto e la fuga
L’ascesa allo scettro dei narcos italiani sembrava essersi arrestata bruscamente a cavallo del 2013. I figli di Nicola – Patrick e Pasquale Michael – furono arrestati rispettivamente con 60 kg e 30 kg di droga. Il primo a Santos, il secondo a Valencia.
Pochi mesi dopo - a luglio 2014 - anche l’imprendibile Nicola finisce in manette all’aeroporto di Lisbona. E’ appena sbarcato dal volo TP0030 della compagnia aera Tap Portugal. Ha un passaporto falso a nome Javier Varela, ma la nostalgia della moglie lo ha tradito. Nelle chat Blackberry parlano della loro vacanza «clandestina». Il Gico decripta i messaggi con il software “Minerva”. La donna lo aspetta allo scalo e lo vede sfilare circondato dai poliziotti del Serviço de Estrangeiros e Fronteiras. Sembra finita, ma non è cosi: Patrick paga «10 mila euro di cauzione»: esce e scompare nel nulla. Nicola fa altrettanto. Presenta istanza al tribunale lusitano che gli concede i domiciliari in attesa che venga riconosciuto il Mae (mandato di arresto europeo) firmato dalla procura generale di Torino. Quando arriva la risposta affermativa sulla conformità internazionale e si avvia l’iter di estradizione, Nicola è già lontano, in Brasile. Una beffa. Di nuovo imprendibile. Di nuovo latitante.
La villa con piscina
Lo è tutt’oggi insieme con Patrick inseguito dall’intelligence delle forze di polizia di mezza Europa. Autorevoli fonti investigative lo collocano con il figlio nella zona di Fortaleza a fare la spola tra Brasile e Argentina. Parlano 4 lingue, possono contare su soldi cash e contatti tali che avrebbero permesso a Nicola di sostenere – da ricercato – un intervento chirurgico di maquillage al volto. Intanto entrambi sono stati condannati in contumacia a 30 anni di carcere, ma solo in primo grado. Pende giudizio di Appello. E’ finita invece la latitanza del secondo genito di Nicola, Pasquale Michael Assisi, 30 anni.
A luglio 2017 i carabinieri del Nucleo investigativo di Torino, gli stessi che hanno messo in piedi la maxi operazione Minotauro contro la ’ndrangheta in Piemonte, lo hanno scovato in un superattico di Torino, nel quartiere periferico Pozzo Strada. Su uno dei due terrazzi a disposizione c’era un tapis roulant per tenersi in forma. Nel soggiorno un televisore al Plasma da 50 pollici, un altro identico in una delle camere da letto. Xbox One S con Fifa 2017 adagiato su una sedia.
La cabina armadi traboccava di griffe. Nel pianale basso una lunga sfilza di scarpe: Gucci, Armani. In bagno, su un paio di pantofole adagiate ai piedi della vasca, il marchio “Versace”. Originali. Ciò che resta degli Assisi oggi è una villa a San Giusto Canavese presidiata fino a pochi mesi fa da una giungla di telecamere (12) a circuito chiuso. Mattoncini in paramano, due livelli, tre camini e giardino con prato inglese: sottoterra i finanzieri hanno trovato una giara dell’olio piena zeppa di banconote: 1,3 milioni di euro, la cassaforte di famiglia. E’ stata confiscata da anni, ma “riconquistata” dallo Stato solo due mesi addietro.
Il vecchio mestiere
Il 30 aprile scorso Libera ha organizzato una marcia della legalità per ricordare l’onorevole del Pci Pio la Torre ucciso da Cosa Nostra. Al corteo hanno preso parte anche il Prefetto di Torino e i vertici delle forze di polizia. Dieci giorni dopo, di notte, qualcuno ha tentato di far saltare in aria la villa collegando due bombole del gas con un innesco rudimentale. Qualcosa non ha funzionato è c’è stato “solo” un incendio. Niente botto.
In paese, a San Giusto, gli anziani ricordano l’impiego di Nicola Assisi prima di diventare narcos: consegnava bombole di gas a domicilio. Ma questa equazione – al momento - non ha certezze né indagati. Alla Dda hanno aperto un fascicolo per incendio doloso. Contro ignoti, per ora .