Ora sfida l’invecchiamento, provando a spostare indietro l’orologio delle cellule. La sua "chiesa" è una piccola stanza al secondo piano del New Research Building di Harvard, a Boston. Sul tavolo statuine di elefanti, molecole stampate in 3D e i libri di Walter Isaacson, il biografo che ha scritto della vita di Einstein e Jobs, tra gli altri: «Li ha lasciati lui, ne sta valutando uno su di me». Perché Church incarna anche l’idea del genio e sa attirare l’attenzione con esperimenti fantascientifici, tanto che Time l’ha inserito tra le 100 persone più influenti del 2017. Il genetista alza le spalle e, lisciando la biblica barba che contribuisce al mito, confessa: «Amo stupire».
A che punto è il tentativo di creare un embrione ibrido di elefante/mammut?
«Quest’anno pubblicheremo i primi risultati. L’obiettivo è consentire all’elefante asiatico di vivere senza problemi nell’Artico, salvandolo dall’estinzione. Abbiamo stilato una lista di 44 geni utili, sia di elefanti antichi che moderni».
Cos’altro sogna di fare?
«Creare organismi resistenti a tutti i tipi di virus. Ci siamo già riusciti con l’Escherichia coli, un batterio intestinale, e ci stiamo provando con i maiali e con l’uomo. Poi, lavoriamo a tecniche per invertire l’invecchiamento».
Che intende?
«La maggior parte delle malattie che uccide gli umani nei paesi industrializzati non colpisce i 20enni, ma gli anziani. Perciò bisogna spostare indietro l’orologio delle cellule, farle tornare giovani. Perché si proteggano da quei danni che le cellule di un 80enne, invece, non riescono a fronteggiare».
E questo è possibile?
«Certo, l’abbiamo dimostrato sui topi, modificando due geni che agiscono su quattro malattie legate all’invecchiamento: l’obesità, il diabete, nonché patologie cardiache e renali. Ora lavoriamo sui cani. Li abbiamo scelti perché fanno una vita simile alla nostra ed è facile capire se la terapia funziona o no. Anche in questo caso, il prossimo obiettivo siamo noi».
Lei non crede a una linea di demarcazione netta tra la possibilità di adottare l’editing genetico per evitare le malattie e per il potenziamento degli esseri umani. Dove ci si deve fermare?
«Va regolato il risultato, non il meccanismo. Bisogna chiedersi se mette a rischio la sicurezza di tutti, se risolve o meno un problema sociale e se è equamente distribuito tra la popolazione o avvantaggia solo i più ricchi. Rispondendo a queste domande, traccio la linea».
Negli ultimi 10 anni la nostra capacità di leggere, scrivere e modificare il Dna ha fatto un balzo in avanti. Come Crispr ha cambiato questo scenario?
«In realtà, penso sia solo una componente minore. Piace perché fa notizia. Ma, al momento, stiamo usando otto modi diversi per scrivere e modificare il Dna. Crispr lo paragono a un’accetta: è ottimo per distruggere i geni, però non per fare del lavoro di precisione. Funziona meglio in alcuni casi, meno in altri. Non credo che vincerà nel lungo periodo. Anzi, per certi versi è già superato. Per esempio, in molti dei lavori più radicali, per cambiare molteplici posizioni nel genoma, abbiamo sfruttato altre tecniche».
Con i suoi progetti spera di convincere le persone a sequenziare il loro genoma. Perché è così importante?
«Lo paragono alle cinture di sicurezza: le metti perché sai che ti salveranno la vita in caso di incidente. Lo stesso vale per il sequenziamento, cioè la lettura del Dna: è d’aiuto per prevenire la trasmissione di malattie genetiche, patologie cardiovascolari o oncologiche».
Questi dati, però, possono anche essere usati contro di noi.
«Il mio genoma è pubblico. E finora nessuno l’ha mai usato contro di me».
Lei ha sofferto di dislessia e soffre di narcolessia. Ha detto che «la neurodiversità andrebbe abbracciata». Che intende?
«È sbagliato stigmatizzare i disturbi mentali. Poi, per esempio, abbiamo valide ragioni per credere che chi soffre di lieve mania è molto bravo nel suo lavoro, perché gli dedica più attenzione. E che narcolettici e dislessici possono essere bravi in tantissimi ambiti».
Come la scienza.