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 2018  novembre 19 Lunedì calendario

Così i gringos di Trump respingono la Carovana dalla Terra Promessa

TIJUANA Al valico di frontiera di San Ysidro, nel quadrante settentrionale della città, dove l’autostrada Interstate 5 annuncia San Diego a diciotto miglia, sotto un cielo cobalto che racconta la libertà, l’Altro Mondo, la Terra Promessa sono un fascio di spine di acciaio zincato che luccicano. Tredici concertine elicoidali di reticolato che si arrampicano in altezza per almeno una decina di metri, stese con sapienza concentrazionaria dall’esercito americano nelle ultime quarantotto ore e che tutto avvolgono. Come un sudario.
L’interminabile colonna di auto al passo, i venditori ambulanti di tortillas, tacos e cianfrusaglie, il monumentale parallelepipedo che annuncia gli Stati Uniti d’America. E il sergente Garcia della polizia di frontiera messicana. Che, a piedi, con movimenti lenti, infila sotto la scocca delle auto il lungo braccio di metallo il cui specchio all’estremità consente di ispezionarne la scocca. «Que pasa? Quién sabe», dice, facendo spallucce e ammiccando con la testa al muro mobile che ha improvvisamente sigillato sul lato messicano il fianco della frontiera che dà sull’invaso in cemento armato del Rio, il fiume, si fa per dire, ridotto a rigagnolo di liquami, che attraversa la città.
Durante la notte è arrivata la polizia federale con un camion da cui sono state scaricate decine di lastre rugginose in ferro alte due metri e mezzo. Perché è vero che nessuno «sabe», nessuno sa, se i tremila della Carovana, a un certo punto, non decideranno di mettersi nuovamente in marcia e sfidare a mani nude gli ultimi cinquecento metri di 4.500 chilometri. Quelli che annunciano la fortezza con cui il Nuovo Mondo protegge se stesso a 400 milioni di dollari l’anno. Ma tutti hanno capito che muro chiama muro. E che il verbo della paura si mette a specchio con quello della solidarietà. Come in un riflesso sghembo che restituisce un’immagine deturpata, stravolta dell’anima. Finendo per parlare la stessa lingua con cui il sindaco conservatore Juan Manuel Gastélum Buenrostro ha cominciato nelle ultime ventiquattro ore ad accarezzare il pelo della minoranza silenziosa della città, mettendola in guardia dal «pericolo» degli alieni. Sono i commercianti e la borghesia di Playas de Tijuana, il quartiere residenziale che, a Ovest, si affaccia sull’Oceano Pacifico e sull’ultimo tratto del muro di frontiera, quello che penetra in acqua per oltre cinquanta metri oltre la spiaggia. Gli stessi che mercoledì notte della scorsa settimana hanno inseguito a sassate nelle strade intorno al Parco dell’Amicizia (ironia della toponomastica) il gruppo della Carovana honduregna di Lgbt, lesbiche, gay, bisessuali e transgender, al grido di "maricòn", finocchi. Quasi a dare corpo al fantasma raccontato dalla sociologa messicana Gloria Anzaldúa. Quello che vuole che una terra di confine e di confinati sia necessariamente condannata ad essere il luogo dove «vivono los atravesados, i maligni, i perversi, gli omosessuali, i seccatori, i bastardi, i mulatti, i mezzosangue, i mezzi morti, insomma quelli che attraversano, oltrepassano, superano i confini della normalità». Gli stessi che, sabato notte, su Facebook hanno chiamato a raccolta, in questa pigra domenica mattina, in piazza Cuauhtémoc, ultimo re azteco a opporsi a Cortès, una rarefatta folla vociante dietro il tricolore messicano per chiedere di chiudere la città alla Carovana.
Selbin, Jones e i "gringos"
Enrique Morones, direttore degli "Angeles de la Frontera", la Ong di volontari che parla l’altra lingua, quella della solidarietà, giura che Tijuana non ha venduto l’anima al demone sovranista. Invita a guardare all’altra piazza della domenica. A quella che, poco distante dal monumento bronzeo di Cuauhtémoc, in Glorieta Independencia, raccoglie chi dimostra al mondo che «i fratelli honduregni sono i benvenuti in Messico». La conferma, tuttavia, di come il muro abbia già fatto il suo lavoro. Scavare. Per dividere. Tra un di qua e un di là.
Una faglia ai cui piedi hanno messo il loro povero banchetto Selbin e Jones. Sono arrivati entrambi con la Carovana da Tocoa, Honduras settentrionale.
Non sono fratelli di sangue. Ma lo sono di marcia. Selbin, la pelle da indio, lavorava nei campi e ha lasciato la famiglia. Jones studiava da apprendista meccanico e la famiglia non l’ha più. Né padre, né madre, né fratelli. Nessuno.
Hanno entrambi facce da scugnizzi. Occhi scuri, profondi, e la carnagione dei bambini. Selbin ha 18 anni, Jones, 14. A ridosso del tratto di muro di Playas de Tijuana, hanno steso su un banchetto una coperta su cui se ne stanno ordinati bicchieri di plastica e tre bottiglie d’acqua naturale da un quarto di litro.
Quelle che gli hanno distribuito al campo profughi "Benito Juarez" e che hanno preferito non bere.
Perché diventassero la loro merce. «Un peso, caballero». 40 centesimi di euro la bottiglia, dicono sorridendo mentre se ne stanno seduti a un metro dalla "Porta della Speranza". È un cancello massiccio che interrompe l’uniformità dell’inferriata di confine che, nel tempo, mani anonime hanno colorato e disegnato con immagini scomposte e che segna il tratto di frontiera che scende verso la spiaggia. Fino a qualche settimana fa, prima che gli Stati Uniti ne decidessero la chiusura permanente, era l’unico segmento del muro aperto alla compassione umana. Per tradizione e accordo tra le due polizie di frontiera, la porta veniva aperta ciclicamente per far incontrare e abbracciare nella terra di nessuno le famiglie di migranti separate dalla burocrazia dell’esclusione. Chi ce l’aveva fatta ed era di là. Chi era stato rispedito indietro per sempre ed era di qua. Come nel parlatorio di un mondo ridotto a carcere.
«Non la aprono più?», chiede Jones. Selbin si mette a ridere.
«Scusalo, è piccolo. Crede a tutto.
Lo ha sentito al Campo che c’era questa porta. Per questo è voluto venire qui a vendere. Perché magari aprivano la porta. E invece guarda quanti gringos».
Selbin e Jones infilano le loro facce magre nello spazio tra un’inferriata e l’altra della barriera. Almeno il naso, la fronte e lo sguardo sono in America, ora. I gringos se ne stanno a neppure una cinquantina di metri e devono sembrargli in qualche modo buffi, vista l’ilarità che suscitano in Jones. Se ne stanno piantati nella sabbia con lo sguardo rivolto verso il Messico, nelle loro mimetiche, con i loro desert boots, armi di precisione, visori agli infrarossi e occhiali a specchio. Saranno una decina. A fare da quinta a tre uomini del Border Patrol a cavallo. Intorno a una delle altissime torri per la sorveglianza elettronica. Un grande occhio che tutto riprende, tutto ascolta. Compresi i sofisticatissimi sensori capaci di trasmettere il segnale di scomposizione della sabbia al passaggio della vita. Distinguendo lo sculettare dei grassi gabbiani dalla corsa a perdifiato di chi dovesse provare a scavalcare.
Davide, Golia e Pancho Villa
I gringos di Playas de Tijuana che fanno sorridere Jones sono l’avamposto di un esercito schierato da Donald Trump alla vigilia delle elezioni di mid-term, il 6 novembre scorso, la fiche giocata senza troppa fortuna dalla Casa Bianca sul tavolo della Paura prima del voto per convincere l’elettorato repubblicano a mettersi in fila ai seggi. Ottomila uomini, tra marines, fanteria aviotrasportata, riservisti della Guardia Nazionale, per dare supporto lungo l’intero fianco sud del Paese — i 3.200 chilometri che uniscono il Pacifico al Golfo del Messico — ai 16mila uomini della Polizia di frontiera di fronte alla "spallata" dei 5mila della Carovana. Almeno fino al 15 dicembre prossimo. In una sproporzione straniante di forze in cui Golia, per convincere l’esercito più potente al mondo a mostrare le armi ai pezzenti dell’Armata di Davide, ha dovuto ravanare nell’epica novecentesca delle guerre ispano-americane. In una base militare del Texas, per la precisione, dove, mercoledì scorso, nelle stesse ore in cui le avanguardie della Carovana entravano a Tijuana su ogni genere di carretta, il segretario alla Difesa, Jim Mattis, ha passato in rassegna le truppe. «Mi chiedete e vi chiedete perché siamo qui — ha detto — Bene, io dico che non siamo venuti qui.
Siamo tornati qui. Perché qui eravamo già stati oltre cento anni fa. Allora la minaccia si chiamava Pancho Villa. Le sue truppe rivoluzionarie sconfinavano con i loro raid in territorio americano.
Era il 1916, e il presidente Woodrow Wilson inviò in questa terra decine di migliaia di uomini tra truppe regolari e riservisti. E la minaccia fu respinta».
Selbin e Jones ne sanno nulla di Pancho Villa. Come gli altri 5mila che con loro hanno attraversato il continente per arrivare a schiacciare il volto su questa inferriata da cui si mostrano i gringos. Ma hanno la stessa fame e sognano allo stesso modo dei contadini di Pancho ridotti a servi della gleba dai latifondisti.
Cercano solo uno strapuntino nel mondo che gli consenta di vivere un’esistenza degna di essere definita tale. E quello strapuntino è proprio qui, 500 metri di fronte a loro. Jones tira la manica della sudicia tuta acetata di Selbin. Di acquirenti non c’è l’ombra.
Neppure quel ragazzo messicano con la fidanzata che ha appena finito di scattarsi un selfie di fronte al muro. «Beviamocela noi l’acqua, che ho sete», dice lo scugnizzo che sogna da meccanico. Poi, si rivolge all’amico: «Però, Selbin, mi prometti che torniamo qui domani? Tanto Trump vuole che ce ne stiamo qui ad aspettare».
(2 —fine)