Corriere della Sera, 19 novembre 2018
Il diario di Ciano è un inganno
Galeazzo Ciano, figlio di Costanzo, marito di Edda (la figlia prediletta di Benito Mussolini), ministro degli Esteri tra la seconda metà degli anni Trenta e all’inizio dei Quaranta, tenne un diario dal 9 giugno del 1936 al 6 febbraio del 1943. Un diario considerato veritiero, addirittura «inoppugnabile» da quasi tutti gli storici del fascismo, a cominciare da Renzo De Felice. Tale lo ritenne senza esitazione il sottosegretario di Stato americano Benjamin Sumner Welles; e così anche Lucien Febvre, Paul Kluke, Maurice Vaussard. Un ex giornalista di regime approdato all’Italia democratica, Ugo D’Andrea, prefatore della prima (incompleta) edizione del diario pubblicata da Rizzoli nel 1946, lo presentò come il libro che, più di ogni altro, «ha saputo descrivere la nostra decadenza di Nazione, mostrando come la tirannide avvilisca, deformi e corrompa il costume e la dignità di un popolo e apra le porte all’invasione straniera». Il più importante storico italiano delle relazioni internazionali, Mario Toscano, nel 1948 scrisse sulla «Rivista Storica Italiana»: «A parte alcuni rilievi bisogna riconoscere nel Diario di Ciano una delle fonti più importanti per la storia della politica estera fascista». I «rilievi» erano limitati all’introduzione scritta dal genero del Duce nel dicembre del 1943, alla vigilia del processo di Verona che avrebbe portato alla sua fucilazione. Toscano notava come Ciano ricordasse la sua opposizione alla guerra del 1939 ma sorvolasse sulla sua adesione all’entrata dell’Italia in guerra nel 1940. E però ancora nel 1963 in Storia dei trattati e politica internazionale (Giappichelli) Toscano continuò a sottolineare il «valore assolutamente eccezionale», la «genuinità» e l’«immediatezza davvero rara» di quel testo.
A dubitare dell’affidabilità di quel manoscritto furono invece voci isolate: Duilio Susmel nel 1962 in Vita sbagliata di Galeazzo Ciano (Palazzi) e Attilio Tamaro in Vent’anni di storia (Tiber), che lo definì come una «fonte gravemente contaminata». Un dubbio condiviso adesso da Eugenio Di Rienzo nel Ciano che la Salerno si accinge a dare alle stampe. Anzi, qualcosa più di un dubbio: Di Rienzo parla del Diario come di «una ben congeniata trappola, a effetto retroattivo, costruita con quelle pagine, fittamente e pignolescamente annotate, in cui sono caduti quasi tutti i suoi biografi». E qui il riferimento, esplicitato in nota, va al Galeazzo Ciano (Bompiani) di Giordano Bruno Guerri e al Ciano. L’ombra di Mussolini (Mondadori) di Ray Moseley. Di Rienzo nota come la «voce» anonima dedicata a Ciano nella Seconda Appendice dell’Enciclopedia Italiana sia stata singolarmente sprezzante verso Ciano, il quale ebbe una parte non irrilevante nella congiura del Gran Consiglio che il 25 luglio del 1943 portò alla destituzione e all’arresto di Benito Mussolini. Ciano – scrive l’estensore della «voce» (che non si firma) – «vanitoso forse più che ambizioso e solleticato dal suo entourage ministeriale, alieno da certo stile volgarmente coreografico che aveva avuto in Achille Starace il massimo regista, nutriva sì qualche velleità di una politica personale». Ma «non più che questo», «soggiacendo egli sempre alla più forte personalità del suocero»; il quale «non è detto che in certe circostanze, ai fini della sua politica, non lasciasse momentaneamente accreditare l’opinione di un latente dualismo». La guerra contro la Grecia (28 ottobre 1940) – proseguiva la «voce» dell’Enciclopedia — «parve e in un certo senso fu la “guerra di Ciano”; in realtà s’inquadrava perfettamente nei piani strategico-politici e soprattutto nella mentalità e psicologia di Mussolini che era rimasto assai contrariato per l’invadenza tedesca nei Balcani». La campagna di Grecia «fu, insomma, l’escogitazione di un’azione che si sapeva grata a un padrone piuttosto che una mossa inserita in una lungimirante linea politica». E, per giunta, «fu preparata dal Ciano con sconcertante leggerezza, come un’impresa in cui, come già nell’aprile 1939 nell’azione contro l’Albania di re Zog, egli vedeva aprirsi all’attivismo sportivo, suo e dei suoi amici, le prospettive di facili allori».
A questo punto l’esegesi di Di Rienzo si fa molto accurata. Ricorda che dopo la cessione del Diario da parte di Edda, Allen Welsh Dulles (direttore a Berna della divisione europea dell’Office of Strategic Services, precursore della Cia) e in seguito Gaetano Salvemini, presa visione del manoscritto originale, riscontrarono in esso «inesattezze, errori di datazioni, contraddizioni cronologiche e fattuali, cancellature e sostituzioni, vistose lacune inerenti ad alcuni momenti cruciali della politica estera italiana». Nel testo a nostra disposizione compaiono «solo scarsi accenni alla riunione del 15 ottobre 1940 in cui Mussolini, Ciano e Badoglio pianificarono l’aggressione alla Grecia mentre sono state distrutte e sostituite le pagine originali sulla “Caporetto ellenica” che fece seguito a quella disastrosa decisione».
«Ebbi modo, a New York, di esaminare le fotografie del Diario di Ciano pagina per pagina», scrisse Salvemini. E – proseguiva – «scoprii che il foglio che conteneva l’appunto relativo al 27 ottobre 1940 e al 28 ottobre, era stato stracciato dallo stesso Ciano; questi inoltre nella pagina del 26 ottobre corresse la data in 27, inserì alcune linee insignificanti alla data 27 ottobre, da lui scritta, e altre linee insignificanti alla data del 28 ottobre, egualmente da lui scritta». Presumibilmente, concludeva Salvemini, «le pagine originali del 27 e 28 ottobre contenevano notizie che Ciano reputava non conveniente lasciare dove erano».
Inoltre, scrive ancora Di Rienzo, nelle famose «agende di Ciano» sono scarsi «gli accenni ai prodromi e al primo sviluppo della guerra civile spagnola, né esistono riferimenti davvero circostanziati al ruolo giocato dal governo fascista per la preparazione, l’attuazione e il sostegno al golpe di Franco». Nel Diario è, infatti, «assente ogni menzione dell’attività del cosiddetto Gabinetto Ufficio Spagna (Gabus), attivo dall’8 dicembre 1936 al 31 dicembre 1939 la cui direzione fu affidata all’uomo di fiducia di Ciano: l’energico e spregiudicato conte Luca Pietromarchi» (al quale è dedicato un eccellente libro di Gianluca Falanga, Storia di un diplomatico, testé pubblicato da Viella). Una struttura «coperta», la cui esistenza non figurava nell’organigramma ufficiale del ministero degli Esteri, ma dotata di un personale numeroso e qualificato, di un proprio archivio segreto e di un autonomo servizio cifra. Con la quale, secondo quel che avrebbe scritto nel 1977 sul «Corriere della Sera» Roberto Ducci, il «genero di regime» intendeva cogliere il suo primo personale trionfo di «Duce in pectore» sul palcoscenico internazionale, «traendo dalla vittoria di Franco, ottenuta grazie all’aiuto italiano, la possibilità di espandere in Europa il fascismo di confessione romana (in sottintesa antitesi a Hitler), di sconfiggere il Fronte popolare francese e ricattare Parigi con una pressione politica e militare sui Pirenei».
L’«adulterina strategia narrativa» utilizzata da Ciano nell’elaborazione di un «falso d’autore» – scrive Di Rienzo – fu «molto più raffinata e pervasiva di quella che poteva essere escogitata da un volgare contraffattore». È infatti il Diario nella sua interezza «a costituire una testimonianza infedele». Cosa che fu del tutto evidente ad alcuni protagonisti e testimoni della tempestosa stagione in cui il genero del Duce s’illuse, a tratti, «di tenere stretta tra le sue mani la barra della politica estera italiana». Chi sono questi protagonisti e testimoni? Il ministro degli Esteri tedesco, Joachim von Ribbentrop, quello spagnolo Ramón Serrano Súñer, l’ambasciatore francese a Roma (dal 1938 al 1940) André François-Poncet, il direttore del «giornale di famiglia» dei Ciano, Giovanni Ansaldo.
Dopodiché degli ultimi 85 giorni di vita di Galeazzo Ciano tra la fine del 1943 e i primissimi giorni del 1944 si sa pressoché tutto. Così come del tentativo di Edda di servirsi del diario del marito per ricattare il proprio padre, facendo in modo che gli fosse concesso di non essere ucciso. Ma Hitler «convinse» Mussolini a non cedere e morte fu. All’alba dell’11 gennaio 1944 Ciano fu giustiziato a Verona. La salva di fucileria non lo uccise all’istante e dovette essere finito da due o tre colpi di pistola sparati a bruciapelo. Un importante giornalista dell’epoca, Bruno Spampanato, annotò sul proprio diario che la condanna del genero era servita forse a rafforzare la posizione di Mussolini a Berlino, ma aveva alienato al Duce il consenso di una parte forse consistente della vastissima «zona grigia» fino ad allora «disposta a tollerare e persino ad accettare l’esistenza della Repubblica fascista, vedendo in essa il necessario baluardo contro la barbarie nazista e la risorgenza del bolscevismo».
Il 20 gennaio, dall’ambasciata britannica a Madrid, Samuel Hoare notificava a Eden che la fucilazione di Ciano aveva provocato disapprovazione e indignazione nella classe dirigente franchista e nello stesso segretario della Falange spagnola, José Luis de Arrese. A maggio il già citato Serrano Súñer, per certi versi simile a Ciano in quanto legato da rapporti di parentela al Caudillo (aveva sposato la sorella della moglie di Franco), esplicitò questo disagio dei propri «ambienti» così scrivendo a Mussolini in calce a una missiva: «Questa lettera non sarebbe amichevole e leale se non vi dicessi che la morte di Galeazzo mi ha riempito il cuore di tristezza e sono sicuro che – a parte il grave errore politico che avete commesso – lo stesso accada al vostro animo così generoso».
Anche Churchill fu scosso da quell’evento luttuoso e sentenziò che «la morte di Ciano dovuta all’acquiescenza di Mussolini alla bramosia di vendetta di Hitler non recò al Duce che infamia e non portò giovamento alla miserabile Repubblica neofascista, la quale, fino alla fine, vivacchiò stancamente sulle rive del lago di Garda come un relitto spezzato dell’Asse».
E il Diario del fucilato? La figlia di Mussolini, secondo Di Rienzo, considerava i documenti consegnatigli dal marito né più né meno che «una miniera d’oro su cui contare negli anni a venire, per mantenere nell’agiatezza e nel lusso lei e i suoi figli» e «solo accessoriamente come lo strumento idoneo a tutelare la memoria del congiunto». Invece quelle pagine non furono affatto una «miniera d’oro». Ma sulla base di quel Diario, ai primi bagliori della guerra fredda, scrive Di Rienzo, nacque la «leggenda Ciano» e con essa il mito del «fascismo buono» e della «non colpevolezza della classe dirigente italiana (generali, diplomazia, industria e grande finanza) che si autoassolse disinvoltamente delle proprie responsabilità e complicità nello scatenamento di una guerra d’annientamento che provocò più di sessanta milioni di vittime». Il Diario di Ciano e la tragica morte del suo autore «servirono da lavacro purificatore per restituire verginità a quanti nella diplomazia, nella burocrazia, nella magistratura, nelle Forze Armate, nelle aule universitarie, nel mondo dell’informazione, sul colle Vaticano e sulle alture del Quirinale, pretesero, ma solo poco prima del 25 luglio 1943, di aver voluto “fermare Mussolini” senza, invece, aver fatto nulla nel passato per evitare la catastrofe del nostro Paese». Il racconto contenuto in quel Diario «dove si favoleggiava di un presunto dissidio tra suocero e genero sulle grandi scelte di politica interna e internazionale», prosegue Di Rienzo, «fornì, inoltre, ad alcuni influenti pubblicisti dell’Italia della ricostruzione il pretesto per sostenere che, senza l’ingombrante presenza dell’inquilino di Palazzo Venezia, il fascismo avrebbe potuto trasformarsi in una “dittatura morbida”, in un regime autoritario ma benevolo, portatore di quegli aspetti positivi che erano assenti invece nell’Italia repubblicana». Quelle pagine diedero un contributo fondamentale alla nascita della leggenda di cui si è detto. Leggenda che è in buona parte viva ancora oggi.