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 2018  novembre 18 Domenica calendario

Stroncatura del nuovo spettacolo di Katie Mitchell, “La maladie de la mort” di Marguerite Duras

Vi sono, sulla scena, livelli di manipolazione che dovrebbero consentire il mutamento del titolo cui ci si riferisce. Rispetto alla letteratura (alla drammaturgia, a un copione) il teatro accade proprio per quello, per manipolare, manomettere, modificare: ossia interpretare. Pure, se del testo assunto si muta in modo radicale il senso – il nucleo irriducibile che lo spinge avanti – cambiare un titolo sarebbe più leale. È ciò che non accade nel caso di La maladie de la mort di Marguerite Duras, messo in scena dalla regista inglese Katie Mitchell. Di lei mi parlò nel 2008 Giorgio Marini, attualmente in esilio (dal teatro) a Londra. Mi disse: vai a vedere The Waves, la regista si chiama Katie Mitchell, è tratto da Le onde di Virginia Woolf, un romanzo impossibile. Andai in Lussemburgo: anche lo spettacolo era a suo modo impossibile – un modo dieci anni fa infrequente, si accatastavano in scena una quantità simultanea di voci e video.
Di Mitchell da allora ho visto altri quattro spettacoli: il ricordo di quello ricavato da Gli anelli di Saturno di Sebald e dell’altro, da Night Train di Friederike Mayröcker, è pallido. Ma indimenticabili sono Una donna uccisa con la dolcezza di Heywood al National di Londra e Les bonnes di Genet ad Avignone: come The Waves, due pietre miliari della messa in scena contemporanea. Ricorderò invece La maladie de la mort per la sua infelicità, o per la sua approssimazione, per la sua bruttezza. Questa parola non si usa mai, pure talvolta è necessaria. Qualcuno lo avrà apprezzato, ma com’era il Casanova di Fellini rispetto a La dolce vita e a Otto e mezzo? Agli artisti, per quanto eccelsi, come a ognuno, accade anche questo, di sbagliare in modo clamoroso. 

Marguerite Duras scrisse il suo breve testo nel 1982: aveva sessantotto anni. Poco prima, nel 1980 le si era presentato a casa, in rue Saint-Benoît, come molti facevano, Yann Andréa, un suo infatuato ammiratore di trent’anni. Era un omosessuale, in fondo non voleva altro che questo, che Duras diventasse sua madre. E questo in effetti accadde. Yann Andréa rimase con lei fino al giorno della sua morte, il 3 marzo 1996; ne divenne l’esecutore testamentario, ne è l’erede. Mi è difficile non pensare che La maladie de la mort non nasca da quest’ultimo, cruciale incontro della Duras. Poco dopo la pubblicazione di un testo che è quasi impossibile definire – non è un racconto, non è una sceneggiatura, non è un saggio —, Maurice Blanchot ne prese spunto per il suo La comunità inconfessabile, del 1984. Vi scrive: «Lei dunque accoglie tutto da lui, senza cessare di chiuderlo nella sua clausura di uomo che ha rapporto solo con altri uomini, ciò che lei tende a designare come la sua “malattia” o come una delle forme di quella malattia, di per sé infinitamente più vasta. (L’omosessualità, per venire a questo nome che non è mai pronunciato, non è la “malattia della morte”, solo la fa apparire, in un modo un po’ artefatto, poiché è difficile contestare che tutte le sfumature del sentimento, dal desiderio all’amore, sono possibili tra gli esseri, siano essi simili o dissimili)».
Quando Peter Handke le chiese di mettere in scena il testo per la Schaubühne di Berlino, Duras rifiutò il copione proposto e si rimise al lavoro, quel copione lo scrisse lei, ancora una volta a modo suo trasformò La maladie in Occhi blu capelli neri, genere letterario ancora più difficile da definire di quello che lo aveva preceduto. Da un punto di vista stilistico, l’andamento quasi tutto ipotetico del primo è scomparso. Ora non è rimasta che la terza persona dell’indicativo presente, l’ordine del regista o, come è possibile, di un Dio. Vi appare più chiara la natura del rapporto tra l’uomo e la donna alla quale (offrendole del denaro del tutto superfluo, che lei accetta forse per gentilezza o per quella lieve deviazione romanzesca che distingue un racconto dalla realtà biografica) l’uomo propone il patto di accettare tutto ciò che lui vuole per un certo numero di giorni, tre nella Maladie, sei in Occhi blu: tre, sei, o sempre. 

La natura di questo rapporto – ecco l’inqualificabile, riprovevole banalizzazione della sceneggiatura di Mitchell – non è quello tra un uomo e una prostituta, bensì tra un uomo e una donna liberi: o almeno, assolutamente libera lei, per così dire, «senza difesa (è di nuovo Blanchot che parla), la più debole, la più fragile, e che si espone con il suo corpo senza tregua offerto alla maniera del viso» (e così Duras: «Improvvisamente vi appare la differenza tra quella grazia del corpo dei morti e questa che è qui presente, fatta di debolezza estrema che d’un gesto sarebbe possibile schiacciare, questa regalità. Voi scoprite che lì, in lei, si fomenta la malattia della morte»). «Se la parola di Pascal è vera – continua Blanchot —, voi scoprite che, dei due protagonisti, nel suo tentativo di amare, nella sua ricerca senza sosta, è lui il più degno, il più prossimo a questo assoluto che trova non trovandolo». Nel 1989 una giovane ragazza di Lucca, Leopoldina Pallotta Della Torre, traboccante Duras non meno di Yann Andréa, fece come lui, si presentò in rue Saint-Benoît e, non subito e in più incontri, senza prendere appunti se non dopo essere uscita di casa, pubblicò La passione sospesa, una lunga intervista in cui è Duras a dire la parola decisiva. «Gli uomini sono tutti omosessuali. Impotenti a vivere fino all’ultimo la potenza della passione. Manca, all’amore tra simili, quella dimensione mitica e universale che appartiene solo ai sessi opposti: più ancora del suo amante, l’omosessuale ama l’omosessualità. Essa è, insieme alla morte, l’unico dominio esclusivo di Dio, quello su cui l’uomo, la psicoanalisi, la ragione, non possono intervenire. L’impossibilità della procreazione avvicina l’omosessuale alla morte. (…) Con Yann ho scoperto che la cosa peggiore che possa succedere nella vita è non amare». Blanchot, da parte sua, qualificando La maladie de la mort non un racconto ma un testo dichiarativo, arriva fino a leggervi una «società asociale della coppia» e quasi un programma (o un effetto) del Maggio ’68 – quando ci si liberò da ogni ideologia, da ogni meta, da ogni finalità. Non vi è in quella coppia altro che un tentativo d’amore? Sì, ma non vi appare alcuna violenza – che è, naturalmente, ciò che vediamo sulla scena di Katie Mitchell. In una conferenza londinese del 2012 aveva dichiarato di non avere alcun interesse per il femminismo. Quasi subisse la suggestione della committenza, oggi nelle interviste (e come lei Jasmine Trinca, l’inudibile voce narrante, inudibile fino ad apparire inutile, chiusa lì, in una cabina-prigione sulla destra del palco), nelle interviste l’una e l’altra non si negano a una retorica attualità: «L’uomo è convinto di dominare la scena, l’accordo è che lei faccia tutto ciò che lui vuole dietro compenso. Lo spettacolo è ancora più attuale alla luce delle riflessioni sull’esercizio di potere dell’uomo sulla donna». E dunque sulla scena altro non c’è che la violenza della prostituzione, non già l’uomo e la donna nudi e crudi di Duras. Ma quel che aggrava in modo inconfutabile il progetto «ideologico» è che oggi il video diventa schermo, totalità, totem. Di quello che accade fisicamente non si vede e capisce quasi niente.
Intorno ai due attori Laetitia Dosch e Nick Fletcher, si muovono incessantemente i corpi (le ombre) di sei-sette cameramen e servi di scena. Come non fosse sufficiente, sullo schermo o lui o lei impugnano un cellulare che seziona i corpi, in un delirio feticistico oltre che voyeuristico che, ancora una volta, con il testo di Duras non ha alcun rapporto. A me personalmente non rimane che il rimpianto di quel corpo, di quella voce – di quella misteriosa ma limpida presenza; il rimpianto di Fanny Ardant, quando fu lei per prima a pronunciare le parole, possibili o impossibili della divinità narratrice o registica, nel remoto dicembre del 2006.