La Lettura, 18 novembre 2018
Com’è il nuovo legal thriller di John Grisham
Un romanzo che si muove attraverso i decenni – il 1946 e il 1942, poi il 1925 – con spietata bravura. Un romanzo che si apre con un delitto senza senso del quale l’autore darà la spiegazione soltanto all’ultima pagina, non prima di fermare la storia per aprire una lunga, spaventosa parentesi nella sezione centrale ambientata durante uno dei momenti più bui della Seconda guerra mondiale. Per poi chiudere il racconto prendendo il lettore alla gola, e illuminando finalmente il motivo del delitto. Una tragedia sudista: un romanzo gotico, un romanzo di guerra e un legal thriller che vengono ricamati, insieme, sullo stesso tessuto.
Premi letterari americani importanti – il National Book Award, il Pen, il Pulitzer – sono stati assegnati, in passato, a romanzi meno ambiziosi, strutturalmente meno raffinati. Eppure questo romanzo, La resa dei conti, che ora esce in Italia per Mondadori, non vincerà premi americani. L’autore non ha dubbi: «Oh, no, no. Non succederà mai. Il “New York Times” non l’ha neanche recensito. Non avranno avuto tempo. O spazio. Avranno avuto cose più importanti da fare. Non è altro che l’ultimo libro di John Grisham».
Grisham ha il sorriso del ragazzo educato del Sud (tecnicamente, ex ragazzo: 63 anni straordinariamente ben portati) che preferisce non attirare l’attenzione su di sé, sulla statura considerevole come sui 300 milioni di copie venduti in tutto il mondo. E proprio tutte quelle copie, il titolo di maestro del legal thriller, la fama mondiale, la ricchezza, hanno «marchiato» Grisham con i critici americani: «Sono sinceramente felice quando un critico – di solito si tratta di un critico straniero – dice o scrive cose gentili sul mio lavoro. Sono orgoglioso, e sento con forza la responsabilità che questo comporta, quando colleghi che stimo infinitamente come Stephen King o Lee Child esprimono il loro apprezzamento. Ma i critici, i premi? Quelli no, è una questione chiusa in partenza in America, anche se all’estero, da voi in Italia, per esempio, ho ricevuto attestati di stima che mi hanno reso felice. Io nel mio Paese sono un brand, sono quello dei legal thriller. Poco importa che abbia scritto di baseball, di football, storie per ragazzi, che abbia ambientato due libri in Italia che considero il mio Paese d’adozione e nel quale mi sento sempre a casa. In sostanza non mi preoccupo dei critici e sinceramente neanche dei lettori: mi preoccupo della storia che voglio raccontare. E comunque quando un libro esce io sto già lavorando a quello successivo, la mia preoccupazione è quella, il prossimo libro».
Non è nemmeno «quello del Mississippi»: La resa dei conti è ambientato nella piccola Clanton da lui inventata all’esordio, per Il momento di uccidere, ma è soltanto il sesto «romanzo di Clanton» in una carriera trentennale di uscite quasi annuali. Grisham tra l’altro è nato e cresciuto in Arkansas e vive da anni in Virginia: sudista sì, ma il Mississippi è stato soltanto una parte della sua vita, sudista «eretico» in tanti modi, dalla letteratura («A Faulkner ho sempre preferito Steinbeck, che mi abbaglia con il nitore della prosa e mi emoziona con l’umanità dei personaggi») alla politica (è democratico in un Sud repubblicano, progressista che ritiene Donald Trump «un quotidiano imbarazzo» e del quale cerca, con la moglie Renee compagna di una vita, di non pronunciare nemmeno il nome, un po’ come se si trattasse del Voldemort di Harry Potter).
Come si mescola Tennessee Williams, la marcia della morte di Bataan (gli 80 mila soldati americani e filippini catturati e costretti dai giapponesi nel 1942 a una spaventosa marcia a tappe forzate nella giungla, crimine di guerra che portò al processo e all’esecuzione, a guerra finita, del suo ideatore) e un delitto senza senso compiuto, nel 1946, da uno stimato eroe di guerra? «Partendo da una storia, vera, che ho sentito tantissimi anni fa, quando ancora facevo l’avvocato e il politico locale in Mississippi: un uomo facoltoso, buono, stimato da tutti, un gentleman, nel 1930 uccise un suo amico a sangue freddo. Senza rivelarne mai il motivo. Mi è rimasta in testa per tutti questi anni, quella storia – i sudisti sono meravigliosi storyteller, mi sembrò da subito straordinariamente interessante. Ecco, parto sempre da una storia. È naturale, per la mia formazione, da avvocato e da scrittore, partire con un delitto, ma non sempre, e in ogni caso è soltanto un punto di partenza. Certo, è quello che i lettori si aspettano da me. Il processo, la pubblica accusa, il verdetto, sì». Il motivo per il quale ha aspettato tanto a dare corpo a quella storia colpisce per l’umiltà del romanziere: «Mi sentivo intimidito. Un delitto inaspettato, un colpevole – reo confesso – assurdo, la guerra, e un episodio della guerra nel quale noi americani siamo stati sconfitti, una pagina spaventosa e oscura, che non rincuora per nulla i lettori patriottici come, per esempio, il successo decisivo del D-Day. No, qui c’è una marcia crudele e senza fine con i prigionieri americani che muoiono uno dopo l’altro, bastonati, torturati. Tutto vero, tutto realmente successo, documentato. Dovevo sentirmi tecnicamente all’altezza di rendere giustizia a questa pagina di storia. Non avrei potuto farlo all’inizio della carriera, non ero abbastanza sicuro dei miei mezzi».
Anche perché, incredibile per i lettori che conoscono la qualità dei due libri, fulminanti, del suo esordio (Il momento di uccidere e Il socio) quando ancora faceva l’avvocato, per Grisham fu complicato farsi pubblicare. Il socio, per esempio, con quell’ultima parte mozzafiato che avrebbe trovato il suo eroe cinematografico in Tom Cruise, bene, quel libro non trovava un editore. «Mi fa piacere che lei l’abbia trovato trascinante, onestamente sembrava così anche a me quando lo scrivevo! Però il mio agente fece parecchia fatica, a New York, a trovare un acquirente, Il momento di uccidere non era stato ancora pubblicato e Il socio che avevo scritto tutti i giorni all’alba prima di andare in studio, dal 1987 al 1989, non interessava a nessuno». E che cosa successe? «Renee, mia moglie. Il momento di uccidere alla fine uscì e non lo considerò nessuno, stamparono cinquemila copie che la gente non voleva. Così mi feci dare delle copie dall’editore e cercai di venderle io, ad amici e conoscenti. Devo averne ancora una cinquantina in qualche scatolone. Mia moglie mi convinse a finire Il socio, comunque. A lei sembrava una lettura molto divertente. Allora nessuno scriveva di avvocati tranne Scott Turow, non era come adesso».
Grisham è troppo educato per sottolineare che alla fine Il socio fu pubblicato, e fu un tale successo nel 1991 che anche Il momento di uccidere fu ristampato e vendette rapidamente un milione e mezzo di copie. Il segreto? «Il segreto è che non c’è un segreto. Ci sono le storie. Ho un sacco di lettori che di mestiere fanno gli avvocati: il problema è che gli avvocati per lavoro ascoltano tante storie di vita interessanti, e quelli bravi in tribunale sono anche bravi a raccontarle. Ma è difficile prendere il nocciolo di verità e trasformarlo in fiction che funzioni, che attiri e trattenga l’attenzione del lettore. Trama e personaggi vanno a braccetto. Chi mi legge, almeno in America, è sopra i 50, più donne che uomini. Meno i ragazzi, che leggono pochissimo». La prima lettrice di Grisham, Renee, è anche la sua prima editor. «Ah, certo: nella prima stesura di La resa dei conti ero stato strettamente realistico nella parte centrale, quella ambientata in guerra. La marcia di quei ragazzi prigionieri fu un incubo; l’avevo scritta come era successa, seguendo documenti e testimonianze. Pagine e pagine di violenza choccante. Era un errore, Renee me l’ha fatto capire. Così l’ho riscritta tutta, quella parte. Non edulcorata, ma ho insistito meno sulle descrizioni. Alterava l’equilibrio del libro, non sarebbe stato possibile ritornare al resto della trama, alla ragione per la quale Pete Banning, il protagonista, uccide un uomo. È importante avere un lettore di cui ci si fida».
Nel suo caso, una lettrice. Grisham ride: «Stephen King fa leggere tutto a sua moglie. Un altro dei miei scrittori preferiti, quel maestro assoluto di John le Carré, fa leggere tutto ai figli. King, le Carré, io, siamo autori di romanzi molto popolari che, non dobbiamo dimenticarlo, verrebbero pubblicati dagli editori anche se fossero meno belli del nostro standard. Perché siamo autori ma siamo anche brand. Io mi aspetto brutale franchezza da mia moglie, e quella ricevo. Ci sono miei colleghi (qui Grisham rifiuta di fare nomi, sempre gentleman, ndr) che non fanno più leggere le cose prima di mandarle all’editore. I risultati si vedono. Renee? Non esiterebbe un secondo a dirmi se qualcosa non va, per evitarmi una brutta figura con i lettori che da me si aspettano quella che non forse non è letteratura, ma è narrativa popolare di alto livello».
Dopo più di trent’anni, verrebbe da pensare che Grisham si senta sicuro dei propri mezzi tecnici. «No, la paura c’è sempre, sotto sotto. Mi siedo alla scrivania il 1° gennaio, fuori fa freddo, e comincio un nuovo libro. Ogni anno. Ad agosto l’ho terminato. Quel che c’è in mezzo? Un po’ come il meteo: all’inizio è pessimo, poi migliora. Alla fine arriva l’estate».