La Lettura, 18 novembre 2018
Annie Ernaux si racconta
«Mio padre ha voluto uccidere mia madre una domenica di giugno, nel primo pomeriggio». Sotto la freddezza di uno stile asciutto, levigato da una ricerca di essenzialità mai fine a sé stessa, bruciano le pagine di questo libro di Annie Ernaux. È uno scoppio violento, seguito da singhiozzi, grida e poi la calma: «Più tardi siamo andati tutti e tre a fare una passeggiata in bicicletta nelle campagne dei dintorni». Tornati a casa i genitori hanno riaperto il bar come ogni domenica sera. «Non se n’è parlato mai più».
Dalla villetta di Cergy-Préfecture, nei dintorni di Parigi, dove abita con i gatti Sam e Zoe («sono i padroni di casa, esigono di entrare e uscire a loro piacimento e io non posso immaginare di vivere senza di loro»), Ernaux, diventata anche in Italia, grazie a L’orma, «la scrittrice che tutti devono leggere», parla de La vergogna, romanzo-memoir che scavando nel sottosuolo dell’infanzia disseppellisce un dolore remoto ma anche un’epoca (e un luogo) con le sue regole, i suoi riti, la sua lingua. La piccola casa editrice romana che sta riportando in Italia tutti i titoli di Annie Ernaux, lo pubblica nella raffinata e sensibile traduzione di Lorenzo Flabbi, con un titolo più appropriato rispetto a quello della prima edizione Rizzoli che nel 1999 lo mandò in libreria come L’onta. La vergogna coglie l’esatto momento in cui il quotidiano confronto tra Annie, figlia di una famiglia contadina-operaia, non istruita, e le compagne della scuola privata che frequenta, tutte borghesi, esplode illuminando la ferocia dello «sguardo degli altri».
«La vergogna» è stato scritto nel 1995 e fa riferimento alla dodicenne che lei era nel 1952. Il 15 giugno, quando assiste alla scena in cui suo padre cerca di uccidere sua madre, è la prima data precisa della sua infanzia. Quell’episodio resta, per molto tempo, «un terrore senza parole». Ne parla per la prima volta in questo libro e, dopo essere riuscita a raccontarlo, dice di avere «l’impressione che si tratti di un episodio banale, più frequente nelle famiglie di quanto non avesse immaginato». La narrazione rende normale qualunque gesto, anche il più drammatico?
«Credo che riuscire a scrivere ciò che non si è mai osato scrivere, dare voce a ciò che è vergognoso o terribile, significhi farlo diventare una cosa fuori di sé, qualcosa di altro, più che dirlo a qualcuno perché in quel caso c’è sempre il peso di uno sguardo. Detto questo, non essere in grado di scrivere di questa scena per decenni dimostra anche che io temevo uno sguardo invisibile. Averlo scritto mi ha mostrato che questo era un’illusione, una forma di senso di colpa».
Ad un certo punto sembra convinta che sia stata quella scena a spingerla a scrivere. È così?
«Questa scena non ha determinato il mio desiderio di scrivere, venuto dopo, a 20 anni. Questa scena è sempre stata nella mia memoria marchiata da un sentimento di vergogna, una vergogna che però non analizzavo. Era difficile farlo, se non tornando al mondo dei miei 12 anni. La descrizione della scena è la porta d’accesso alla scrittura di questo libro, alla vergogna sociale in generale».
Lei scrive: «La donna che sono nel ’95 è incapace di rimettersi nei panni della ragazzina del ’52 che conosceva soltanto la sua cittadina, la sua famiglia, la sua scuola privata e aveva a disposizione un vocabolario ridotto. Il punto è che «non esiste un’autentica memoria di sé». Rileggendolo ora, vent’anni dopo, quella ragazzina è ancora come la vedeva nel ’95?
«Scrivere ha questo di particolare: che “solidifica” un’immagine di sé in un dato momento. Non so più come vedevo questa ragazza di 12 anni mentre scrivevo: il risultato è la figlia del libro, nel libro. E leggendo di nuovo, mi sono detta che non cambierei nulla, forse lo completerei, aggiungerei dei dettagli, nient’altro».
«La vergogna» è il titolo di questo libro, ma si potrebbe dire che sia anche uno dei fili conduttori della sua opera, figlio della sua biografia che è sempre il suo soggetto principale. Quando la vergogna ha smesso di essere il sentimento più forte nella sua vita?
«Nello scrivere sul mio ambiente di origine, sui miei genitori o sul quartiere popolare in cui avevano il loro piccolo bar-drogheria, ho voluto portare alla luce ciò che era sotteso a quella condizione, la rabbia e le umiliazioni di diventare “una transfuga di classe”. Ero spinta da una smania di verità, di svelamento delle cose taciute, una smania che cancellava, o inglobava in sé, tanto la vergogna quanto, soprattutto, la vergogna di aver avuto vergogna del mio ambiente. Questo è il primo libro che ho pubblicato. Ma non mi sono liberata di questa vergogna sociale, rinasce tutte le volte in cui mi trovo in situazioni in cui non conosco i codici, i comportamenti. Ed è vero anche che mi vergogno sempre di portare un nuovo testo al mio editore, come se non fossi ancora legittimata a scrivere».
Nel libro c’è una scena chiave: una notte fa tardi e, scortata da un’insegnante, la signorina L., e dalle compagne, bussa alla porta della drogheria dove abitava con la sua famiglia. Sua madre le apre la porta, è spettinata, indossa una camicia da notte sporca e lei per la prima volta la vede «attraverso gli occhi della scuola privata». Si sente come smascherata.
«È una scena molto violenta, che mi immerge in una sensazione di indegnità assoluta. Poi, adolescente, il fatto di essere brava a scuola ha come cancellato questa differenza di classe, che riemergeva nella ricreazione! Questo non è un sentimento che si prova costantemente, non esiste quando si è soli, quando si legge per esempio. Lo si prova in contatto o in presenza di altri che, per i loro comportamenti, il loro modo di parlare, i loro gusti, ti fanno capire che non sei dei loro. Non voglio dire che lo facciano apposta, anzi il più delle volte non se ne rendono nemmeno conto. Il ricordo della vergogna riguarda necessariamente chi l’ha sperimentata».
Per fare «l’etnologa di sé stessa» lei compie un lavoro sulla lingua che si usava allora, in quello che era il suo ambiente sociale, ripesca gli oggetti, le fotografie, gli abiti. All’inizio del libro il mondo del 1952 appare «uniformemente grigio, come gli ex Paesi dell’Est». È come se poi si colorasse e, insieme al mondo esterno, prendesse forma anche il mondo interno: i sentimenti, le paure. A questo serve la scrittura? A fare chiarezza?
«Questo grigio proiettato sul mondo degli anni Cinquanta non è mio in modo particolare, penso che sia quello della memoria collettiva degli anni del dopoguerra, del cinema in bianco e nero. Ma la scrittura in effetti spazza via questa uniformità, fa emergere la complessità del reale. Scrivere non è solo chiarire, è anche rivivere qualche momento del passato. O far rivivere, come nel mio libro Gli anni, ma qualunque sia l’intenzione, c’è un processo di illuminazione all’opera».
A un certo punto lei scrive: «Essere come tutti era l’obiettivo generale, l’ideale da raggiungere. C’erano i mi piace e i non mi piace». Oggi per un ragazzino o una ragazzina i like si danno con i social media, è cambiata la scala dei valori, ma in fondo tutto si riduce ancora a quello: essere accettati.
«Certo, ed è una questione particolarmente acuta quando sei giovane, non hai un posto fisso nella società. In un certo senso, non abbiamo nient’altro che noi stessi e ancora non sappiamo veramente cosa sia questo “me”».