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 2018  novembre 18 Domenica calendario

Nella Via Lattea c’è un buco nero di cui si sa pochissimo

Sarà perché richiama uno degli incubi più ricorrenti, quello della caduta inarrestabile in un pozzo senza fondo, o forse perché, in un lontano passato, i nostri antenati hanno vissuto, quotidianamente, il pericolo concreto di essere sbranati e inghiottiti da belve feroci. Sta di fatto che, appena si nominano i buchi neri, scatta immediatamente un riflesso di panico ancestrale.
Fino a pochi anni fa l’argomento interessava al più qualche migliaio di specialisti, cosmologi e astrofisici, che ne discutevano nei loro convegni; placidamente inconsapevoli che ben presto ci sarebbe stata un’esplosione di interesse popolare per un argomento così esotico.
L’idea che il nostro firmamento possa ospitare «stelle scure» è vecchia di almeno un paio di secoli. Il primo a ipotizzarle, nel 1783, fu il reverendo John Michell, filosofo naturale e grande scienziato dell’epoca, capace di anticipare nei suoi scritti molte tematiche che troveranno sviluppo nei secoli successivi. Per Michell fu semplice, ragionando sulla teoria corpuscolare della luce sviluppata da Newton, immaginare stelle talmente compatte e massicce da produrre un’attrazione di gravità mostruosa, tanto potente da intrappolare per sempre la luce che venisse emessa alla sua superficie. Le particelle di luce si sarebbero comportate come sassi lanciati dalla terra, avrebbero disegnato traiettorie paraboliche che li avrebbero inesorabilmente riportati alla quota di partenza.
L’idea di Michell era talmente avveniristica che nessuno la prese in considerazione per quasi duecento anni. Un primo momento di rottura si ebbe nel 1916. Albert Einstein aveva da poco pubblicato la sua teoria della relatività generale e Karl Schwarzschild, un fisico tedesco che si era arruolato nella Grande guerra e combatteva sul fronte russo, si fece mandare l’articolo che resterà nella storia. In poco tempo egli riuscì, usando un diverso sistema di coordinate, a trovare una soluzione esatta alle equazioni per le quali lo stesso Einstein non era andato oltre soluzioni approssimate. Con questo nuovo approccio lo spazio-tempo assumeva una simmetria sferica e per ogni massa si poteva definire un raggio, che sarà indicato col nome di Schwarzschild, al di sotto del quale nasceva una singolarità: una curvatura dello spazio-tempo così elevata che gli stessi fotoni non sarebbero riusciti a sfuggire. La soluzione era così curiosa che né Einstein, né lo stesso Schwarzschild, osarono scrivere, o anche solo immaginare, che dietro la formulazione matematica potesse nascondersi una nuova classe di corpi celesti.
Occorrerà aspettare gli anni Sessanta per vedere nascere il termine «buco nero», introdotto nel 1967, con un tocco di forte ironia, dal fisico americano John Wheeler, fra i primi a intuire che si poteva trattare di oggetti astronomici reali e che si apriva un nuovo campo di ricerca. Da allora lo studio dei buchi neri e la caccia a tutti i possibili segnali che potessero suggerirne la presenza ha segnato in profondità l’astrofisica moderna. Gli anni Settanta ci hanno portato i contributi teorici fondamentali di Roger Penrose e Stephen Hawking e le prime osservazioni indirette di candidati buchi neri in sistemi binari. Un catalogo che si è arricchito con il tempo fino alla scoperta, sorprendente, di buchi neri super-massicci presenti nel nucleo centrale della maggior parte delle galassie ellittiche o a spirale.
Anche la nostra placida Via Lattea nasconde nel suo cuore più profondo e tenebroso Sagittarius-A, un buco nero pesante quattro milioni di volte più del Sole. Una massa certamente mostruosa, ma che impallidisce di fronte a quella del buco nero di Ngc-4261, una galassia nella costellazione della Vergine, che pesa quanto 1,2 miliardi di masse solari. Tutti ricordano, infine, che è stata una collisione fra buchi neri, di 30 masse solari circa, a provocare il primo segnale di onde gravitazionali registrato da Ligo nel 2015.
I buchi neri sono quindi una nuova classe di corpi celesti, abbastanza rari e tuttavia presenti in molte zone dell’Universo. Oggi sappiamo che sono oggetti molto diversi fra loro, non solo per dimensioni e caratteristiche, stazionari o rotanti, neutri o carichi, ma anche per le dinamiche da cui nascono e l’evoluzione che subiscono.

Della loro nascita sappiamo ben poco. Con tutta probabilità entrano in gioco meccanismi diversi. Tradizionalmente si considerano i buchi neri come il risultato finale del collasso gravitazionale di stelle particolarmente massicce. Stiamo parlando di stelle oltre le venti masse solari che, passando per diverse fasi dopo la fine del combustibile nucleare, possono contrarsi in maniera furibonda al punto da concentrare la massa residua in un volume virtualmente infinitesimo. Questo meccanismo, sicuramente plausibile, viene oggi esteso a stelle di neutroni che raggiungono la massa critica assorbendo materia da stelle ordinarie con cui interagiscono in sistemi binari o attraverso la collisione con altre stelle di neutroni.
Questa dinamica permetterebbe di spiegare i buchi neri che hanno masse comprese fra 5 e 80 volte quella del Sole. Ma la cosa non funzionerebbe per i buchi neri ultra-massicci, quelli che hanno masse milioni o miliardi di volte superiori. Per loro bisogna ricorrere a meccanismi diversi. Sappiamo che una volta che un buco nero si piazza al centro di una galassia può crescere a dismisura inghiottendo lentamente tutto quello che lo circonda. Ma qual è il punto di partenza? Forse, prima che brillassero le prime stelle, le immense nebulose di gas primordiale si sono aggregate in quasi-stelle, oggetti altamente instabili che sono collassati in buchi neri anziché evolvere in stelle ordinarie. Qualcuno ipotizza addirittura la formazione di buchi neri primordiali, nati meno di un secondo dopo il Big Bang, quando le imponenti fluttuazioni di densità dell’Universo appena nato potevano indurre al collasso gravitazionale enormi porzioni di materia.
Insomma, a più di duecento anni di distanza, le stelle scure del reverendo Michell, nascondono ancora molti segreti.