Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  novembre 18 Domenica calendario

Putin d’Arabia

La Russia è tornata a giocare un ruolo centrale in Medio Oriente. Lo ha verificato di recente la diplomazia italiana durante la preparazione della conferenza internazionale sulla Libia a Palermo. Mosca è stata fondamentale per convincere Khalifa Haftar a partecipare. L’uomo forte della Cirenaica ha parlato direttamente con Vladimir Putin prima di dare l’assenso. E pare anche che mercenari russi siano già attivi militarmente al fianco delle forze di Haftar. Non solo: si intensificano gli scambi tra Mosca e Il Cairo, ma anche con gli Emirati, la Turchia, Israele e l’Iran. Inoltre: Putin si è dimostrato abilissimo in Siria e, per riflesso, in Libano. 
Pur con un’economia disastrata e impegnando un corpo di spedizione relativamente piccolo, è riuscito a imporsi su larga parte dello scacchiere regionale. Gli ha giovato – ma non è l’unico elemento – la scelta strategica americana di ridurre la propria presenza e l’impegno nella regione sin dall’inizio del mandato di Obama. L’uomo forte del Cremlino, sia pure con metodi molto brutali, è tornato a essere interprete fedele delle tradizionali ambizioni russe, che risalgono ai decenni d’oro dell’Impero zarista e che vennero proseguite dall’Unione Sovietica durante la guerra fredda. Si tratta di mosse importanti, destinate a durare nel tempo e con cui tutti i Paesi europei e mediterranei, non ultima l’Italia, sono chiamati a fare i conti. 
Lo scenario libicoFurono i bombardamenti Nato contro il regime di Gheddafi nel 2011 a convincere Putin che «la Siria non avrebbe dovuto finire come la Libia». Dmitri Trenin, tra i più noti politologi russi, ex ufficiale dell’esercito e oggi direttore del Centro Carnegie di Mosca, in un recente libro (What Is Russia up to in the Middle East?), spiega quanto l’allora premier fosse inizialmente propenso a lasciare che gli Stati Uniti e i loro alleati creassero una no-fly zone a Bengasi per evitare che le truppe del colonnello libico massacrassero i rivoltosi. Tanto che, per la prima volta dall’invasione Usa in Iraq nel 2003, non pose il veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ma poi le forze Nato «tradirono» il mandato agli occhi di Putin: le loro operazioni da difensive diventarono offensive, sino a mirare apertamente alla defenestrazione di Gheddafi, con esisti catastrofici. Va aggiunto che, dopo aver cancellato i debiti del rais all’ex Urss nel 2008, Mosca tra il 2009 e il 2010 aveva firmato accordi economici con Tripoli per un valore complessivo di 7 miliardi di dollari: una cifra relativamente bassa rispetto all’Italia. I rapporti politici tra i leader russi e Gheddafi non erano allora particolarmente calorosi. 
L’intervento in SiriaNel 2015 l’esercito russo entra in azione per salvare il regime di Bashar Assad. Una importante operazione militare fuori dai confini dell’ex Urss: è la prima volta dalla fine della fallimentare avventura afghana, che un quarto di secolo prima segnò il culmine della decadenza di Mosca e la sua eclissi in Medio Oriente. Da Washington Obama predice ironico: sarà un flop anche peggiore. Deride Putin. Poi, dopo aver smentito le sue «linee rosse» – aveva promesso che l’esercito americano sarebbe intervenuto se il dittatore siriano fosse ricorso alle armi chimiche contro la popolazione in rivolta – decide di restare a guardare. 
A questo punto succede qualcosa che sorprende gli analisti della Nato: l’aviazione russa, coadiuvata dagli iraniani e dai guerriglieri sciiti dell’Hezbollah libanese, ha la meglio. Il contingente aereo russo è poco numeroso, nulla se paragonato alle forze inviate dagli Usa contro Saddam Hussein nel 1991 e nel 2003. Elicotteri e caccia non superano mai le 44 unità (e questo solo nel febbraio 2016). Per il resto del tempo sono una ventina. Contro di loro lottano milizie povere e disorganizzate. Sul terreno Putin invia quattromila soldati, che però sono quasi tutti impiegati per la difesa delle basi russe tra Latakia e Tartus. La coalizione sventola la bandiera della lotta contro il «terrorismo islamico di Isis». In realtà, inizialmente bombarda le milizie più moderate che tanta paura fanno a Bashar: possono raccogliere più facilmente il sostegno occidentale e mobilitare le masse di siriani non fanatici. Solo in un secondo tempo attacca l’Isis. Il risultato è clamoroso. Oggi la Russia ha vinto in Siria, gode di fiducia e rispetto in larga parte del Medio Oriente, vende le sue armi e riesce a navigare con successo anche nei marosi infidi dello scontro tra sciiti e sunniti. 
I rapporti con l’EgittoNegli anni d’oro dell’Urss, l’Egitto di Gamal Abdel Nasser costituiva il bastione della presenza russa in Medio Oriente. Fu Anwar Sadat, tra il 1970 e la guerra del Kippur con Israele nel 1973, a passare armi e bagagli nell’orbita americana. La novità è che, a partire dal golpe militare del 2013, con l’ascesa al potere del presidente Abdel Fattah el Sisi, le relazioni tra Mosca e Il Cairo sono tornate ai toni caldi di una volta. Putin sta pensando di riaprire un paio di basi militari tra il Sinai e Alessandria. Soprattutto è interessato a coltivare buoni rapporti con i regimi del Medio Oriente che siano in grado di contribuire alla lotta contro gli estremisti islamici. È questo uno dei motivi per cui lui e i suoi esperti hanno sempre guardato con sospetto agli esiti delle «primavere arabe», che pure tanta simpatia avevano inizialmente raccolto in Occidente. Temevano che la caduta delle dittature potesse condurre alla crescita dei Fratelli musulmani e dei gruppi jihadisti radicali, come poi è largamente avvenuto. 
Una delle massime preoccupazioni di Mosca resta evitare che gli abitanti delle province russe a maggioranza musulmana attorno e all’interno del Paese, come la Cecenia, entrino in contatto con i jihadisti arabi. Non va dimenticato che tra i guerriglieri più fanatici di Isis si trovavano ceceni e uzbeki. La fine del Califfato tra Mosul e Raqqa ha senza dubbio inferto anche un grave colpo ai gruppi jihadisti in Russia. Oggi Mosca è interessata a impedire che i volontari sopravvissuti cerchino di tornare alle loro case, esattamente come le polizie europee monitorano con attenzione i movimenti dei foreign fighters nostrani. 
Israele, Iran e TurchiaPutin investe con attenzione nei rapporti con i Paesi nemici tra loro, i cui conflitti possono danneggiare gli interessi russi. Mosca riconobbe subito Israele nel 1948, ancora prima degli Stati Uniti. Ma la luna di miele fu breve. Già allo scoppio della guerra di Corea, nel 1950, fu evidente che David Ben Gurion si allineava al blocco occidentale. 
Oggi le relazioni con l’Israele di Benjamin Netanyahu sono al bello stabile, aiutate anche dal quasi milione e mezzo di ebrei russi che dal 1990 sono emigrati nella «terra dei padri» e mantengono legami stretti con il Paese d’origine. Israele chiede alla Russia di evitare che l’Iran rifornisca d’armi l’Hezbollah e attenui i legami tra Teheran e Damasco. Putin promette che farà del suo meglio affinché i miliziani di Hezbollah tornino in Libano non appena la guerra contro l’Isis siriano sarà finita. In questo scenario le sempre guardinghe relazioni tra Teheran e Mosca restano relativamente amichevoli nel comune interesse di contenere le mosse americane. Putin si è sempre detto contrario all’atomica iraniana. Recentemente ha colto la palla al balzo e condannato la scelta della Casa Bianca di recidere il trattato con Teheran sul controllo del nucleare.
Ma è con Ankara che i successi sono più evidenti. Dopo le tensioni del novembre 2015, quando i razzi turchi colpirono un caccia russo nei cieli siriani, oggi il maggior partner Nato della regione è spesso più vicino a Mosca che a Washington.