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 2018  novembre 18 Domenica calendario

Intervista a Vittorio Cecchi Gori

La prima domanda, il primo dubbio dopo l’ictus dell’anno scorso (“come sta?”) iniziano a sciogliersi già dal brusio che invade l’ascensore; spariscono del tutto appena varcata la soglia di casa: Vittorio Cecchi Gori in tuta, decisamente dimagrito, un colore di capelli sobrio, leggermente paonazzo mentre urla al telefono: “Tycoon a chi? A chiiiiii! Non sono un tycoon (pausa, ascolta brevemente l’interlocutore) Sì, l’ultimo tycoon del cazzo… io sono una vittima… Ho detto no, e basta”. Questa è la sintesi di una conversazione lunga qualche minuto, mentre cammina nel suo appartamento romano, con passo veloce e frequente.
L’associavano a Trump.
Nel 2001 o 2002 mi raggiunse a Saint Tropez e disse: ‘Vieni a vivere negli Stati Uniti, altrimenti in Italia ti rovinano’.
Lungimirante.
Cacchio è vero. Però ci siamo conosciuti tempo prima: dalla sua società avevo acquistato gli ultimi due piani di un grattacielo a Central Park, e pagati in contanti; un affarone per me, felicità totale per lui perché aveva bisogno di liquidità per la separazione dalla moglie Ivana.
Messo all’angolo uno come The Donald?
C’è una regola fondamentale: puoi essere presidente o l’ultimo arrivato, sempre al bagno devi andare.
Aveva ragione rispetto al “vieni a New York”…
Sì, ma quando parlava non lo capivo tanto, forse perché non si intendeva di cinema, pochi gli argomenti in comune.
Neanche la comune passione per le donne?
Vabbè ma quello è normale, anzi è buon segno.
Di un altro tycoon, Berlusconi, ha dichiarato: “Se gli dai il dito ti si prende il culo”.
Confermo.
Non le sta antipatico…
(Sul viso compare un’espressione strana, un mix di emozioni stratificate nei decenni) All’inizio Silvio è stato la fortuna del cinema e anche la mia, in particolare grazie alle sue televisioni private; poi come sempre avviene, riesce a distruggere le persone che gli sono state vicine.
Ecco quella frase…
Nata da una conversazione con Gianni Agnelli su Giovanni Spadolini, quando non venne eletto alla presidenza del Senato e per un solo voto (nel 1994 vinse Carlo Scognamiglio, di Forza Italia).
E Agnelli?
Gli piacque così tanto da ripeterla a chiunque e in continuazione.
Da ex parlamentare le hanno tolto il vitalizio.
Non è il maggiore dei miei problemi, con tutto quello che mi è capitato in questi anni! Anzi, a me i 5Stelle neanche dispiacciono.
Dei suoi problemi, qual è il più grande rimpianto?
Senza dubbio il cinema: soffro nel vedere com’è ridotto, magari avrei lottato per salvare qualcosa, per mantenere certi livelli, in particolare la nostra presenza sul mercato internazionale.
Quale film le sarebbe piaciuto produrre?
Non lo so, non li vedo più tutti.

La grande bellezza…

No, non sono sereno nei giudizi (si ferma, riflette) paragono ogni pellicola a quelle prodotte da noi, e le nostre mi sembrano sempre più belle.

Perfetti sconosciuti.

Ecco, questo è girato bene ed è arrivato all’estero… noi il mercato straniero lo toccavamo spessissimo, grazie ad Altrimenti ci arrabbiamo pure l’estremo Oriente.
Bud Spencer e Terence Hill.
Un record incredibile, girato insieme a due persone perbene, molto differenti caratterialmente, ma compatibili come poche altre.
Bud Spencer è celebre per le spaghettate in roulotte durante le pause.
La roulotte è un mondo a sé, è il cinema; lì dentro sono nate leggende, storie, amicizie e discussioni: Aldo Fabrizi cucinava chili e chili di spaghetti, il fumo del bollitore usciva da ogni parte; Renato Pozzetto era fissato, la considerava sacra, quasi inviolabile.
Una casa.
Sì, ma solo dentro al contesto del set, altrimenti diventavi un poveraccio.
Le roulotte permettevano le fugaci storie d’amore.
Solo la sera, durante il giorno si girava.
Gianmarco Tognazzi a La Zanzara ha rivelato che il padre Ugo pure durante le riprese…
Era micidiale, una passione smodata per le donne. E lo capisco bene (scoppia a ridere).
Anche lei sui set…
Lì mai.
Impossibile.
Davvero: mai sedotta una attrice per il mio ruolo da produttore, ogni storia è nata sempre dopo la conclusione del film.
Insomma, Tognazzi…
Con lui abbiamo girato molte pellicole, alcune complicate come nel caso de La Califfa: c’era Alberto Bevilacqua (regista) poco pratico della macchina da presa, mio padre lo doveva perennemente guidare, sembrava lui il vero regista.
Sarà stato contento Bevilacqua.
Il vero produttore è pure autore, e il regista deve essere un po’ produttore: questa è la meccanica; mio padre prendeva il copione e si segnava le scene incerte, poi chiamava gli sceneggiatori e li invitava caldamente a correggere; poi si imponeva sui registi, ma solo dal punto di vista meramente creativo.
Anche lei?
Meno, papà andava più a fondo. Però andavo sempre sul set.
Il successo di Altrimenti ci arrabbiamo è suo. Suo padre cosa le disse?
Non lo ha mai capito, né amato: non lo sentiva proprio.
Gli incassi li avrà visti.
Altri tempi. Vede questa casa? (Un bell’attico ai Parioli, spoglio in quel che resta di un arredo in perfetto stile anni Sessanta).
Cos’ha?
Acquistata nel 1962 grazie agli incassi de Il sorpasso. E quante discussioni per realizzarlo.
Tra chi?
Mio padre e Dino Risi: scazzavano pure sulle singole scene, delle liti epiche, straordinarie, tra due grandi teste.
Lei presente sul set?
Avevo vent’anni e ricordo la magia di quelle settimane: in apparenza discutevano, ma in sostanza filava alla perfezione, una magia perenne, compresa la scelta all’ultimo momento di Trintignant, o quella del contadino.
Il tizio con le uova.
Ingaggiato a caso e solo un’ora prima di girare: l’attore scelto non si era presentato (si ferma). Con Brancaleone stessa storia.
Cosa?
Altra magia, e pensare che non lo voleva nessuno a causa del linguaggio ‘incomprensibile’, dicevano. Al contrario è stata la sua forza, e grazie alla cultura dei miei genitori.
Gassman.
Persona straordinaria, girare Brancaleone è stata un’avventura. Cinema nel cinema. Serate di confronti, anche aspri: una sera Vittorio ha dato un paio di ceffoni a Volonté; Gian Maria a volte era veramente pesante, difficile vederlo rilassato.
Qual è il punto debole degli attori?
Soffrono l’età, hanno difficoltà nell’invecchiare, proprio non lo accettano.
Chi è l’attore?
Due categorie: quelli che interpretano solo se stessi, e chi entra nelle varie parti.
Esempio.
Nel primo gruppo inserisco Alberto Sordi, perennemente lui; nel secondo Marcello Mastroianni.
Il suo primo set.
Nel 1949 con mio padre a Napoli, per un film con Eduardo De Filippo: durante le pause mi piazzavo sulle sue ginocchia.
Di De Filippo?
Sì, e mi lamentavo perché era troppo ossuto; ho ancora nella testa, nel cuore e nelle narici la gioia del pranzo, con cestini stracolmi di ogni magnificenza culinaria, il trionfo dell’opulenza partenopea. Comunque le pause dei film sono fondamentali, puoi stringere accordi, far nascere amicizie, sinergie, capire la vera natura delle persone.
Ha mai visto sorridere Eduardo?
Mai.
In compenso mi sono rifatto con Massimo Troisi, uno dei pochi ad associare il ruolo di attore a quello di autore.
Roberto Benigni.
Non lo vedo da qualche anno, però il tempo passa per tutti.
Con lui ha vinto l’Oscar con La vita è bella.
E dopo abbiamo sbagliato a girare Pinocchio.
La maledizione di Pinocchio.
Che per me vale doppio: oltre a lui pure con Francesco Nuti. Due disastri. Il problema è uno, e solo uno: è un libro per grandi, mentre tutti lo interpretano come un testo per ragazzi.
Perché il secondo flop dopo quello con Nuti?
Dopo il successo de La vita è bella, Roberto aveva difficoltà nel trovare una storia interessante, quindi siamo andati a sbattere da consapevoli, ma senza via d’uscita.
Con Benigni e Troisi è nato Non ci resta che piangere.
Ricordo lo sguardo scandalizzato di mio padre al momento dell’anteprima a Cinecittà: il film durava circa quattro ore, e non capiva l’assoluto di due geni messi insieme. Quante risate…
Sul set?
Anche fuori: a cena ridevo per ogni gag volontaria e non. E quel film solo loro potevano realizzarlo: la storia non è un granché, sono i loro tempi comici a renderlo incredibile.
Quale film le è sfuggito.
Ero fissato per Cent’anni di solitudine. Un giorno mi chiamano da Los Angeles: ‘Ti abbiamo preso un appuntamento con Garcia Marquez’. Decido di partire con Giuseppe Tornatore, destinazione: Città del Messico; un viaggio complicato durante il quale andiamo a sbattere con la macchina.
Pure l’incidente…
Tamponati durante un nubifragio, niente di grave, mi sono rotto giusto una costola.
Ah, allora…
Arrivati andiamo a casa di Marquez, la moglie in cucina a preparare la cena; lui gentilissimo, voleva darmi tutti i diritti dei libri, mentre io desideravo solo Cent’anni. ‘Nessuno è in grado di girarlo, è un romanzo troppo personale, intimo, impossibile ricreare quell’ambientazione’. Tornatore ci rimase malissimo.
Al Fatto lei ha dichiarato di aver conosciuto molto bene Weinstein.
Un uomo di grandi capacità dal punto di vista cinematografico, per il resto un lazzarone. E riguardo ai film, con lui non si vedeva una lira.
Altro che lazzarone.
Con me è stato bravissimo nel lancio statunitense delle pellicole che poi hanno vinto l’Oscar (Mediterraneo, La vita è bella e Il postino), poi mi chiamava sempre per raccomandarmi qualche attrice, quindi le donnette con lui giravano.
Lo scandalo non l’ha stupita?
Per nulla.
Con lei le attrici ci hanno provato?
Alcune mi hanno fatto girare la testa, ma come le dicevo, sempre dopo la chiusura del’ultimo ciak. Insomma, ci conoscevamo sul set.
Davvero mai prima?
Solo le minori, quelle che hanno necessità di questi mezzucci.
Un suo amico.
Marco Risi, grazie ai nostri genitori siamo cresciuti insieme. Quando sono stato male è corso in ospedale, non ha ottenuto il permesso di entrare, e allora mi ha scritto una lettera bellissima. Il mio sogno è rifare Il sorpasso insieme a lui.
Carlo Verdone è stato suo testimone di nozze. 
E in quel momento è nata l’idea de I due carabinieri.
Davanti all’altare?
Durante la cerimonia vidi lui ed Enrico Montesano impettiti, vestiti in blu e pensai al soggetto del film. Comunque sul set litigarono…
Come mai?
Enrico era geloso delle risate, si lamentava, e aveva ragione Carlo.
Montesano carattere complicato.
Eh sì, certi atteggiamenti hanno decisamente limitato la sua carriera.
Per anni è stato proprietario della Fiorentina. Come giudica quel mondo?
È losco, marcio come non potete immaginare. Ci hanno spedito in Serie B e in precedenza non siamo riusciti a vincere lo scudetto, la mia piccola vendetta è stata vendere Batistuta alla Roma…
Ha visto cose che…
(Cambia discorso) Da ragazzo giocavo pure a pallone.
Con Pasolini.
Correva molto ma non era forte. Io meglio di lui.
I calciatori professionisti.
Degli immaturi obbligati a crescere velocemente e questo provoca dei traumi amplificati dall’incredibile vortice economico che li circonda.
Tra tutte le persone che ha conosciuto e che non ci sono più, con chi le piacerebbe poter passare ancora un’ora?
Esclusi i miei genitori?
Sì.
Giovanni Paolo II. Dopo La vita è bella chiamò me e Roberto (Benigni) per un incontro: sei ore solo a noi due.
Sei ore metaforiche?
No, reali: dalle 14.30 alle 20.30, e venni fuori alla distanza, perché Roberto è un bel rivale, mica sta zitto facilmente. Il Papa apprezzò molto lo spirito del film, in particolare il desiderio di riunificazione tra cattolici ed ebrei, fino a quando lo vennerò a chiamare: ‘Santità è l’ora della cena’.
Un suo errore “chiave”?
A un certo punto mi sono lanciato in troppe situazioni e non ho retto.
Si sente solo?
Rispetto a prima è inevitabile, un tempo lavoravo a pieno ritmo; ma finché sei vivo devi illuderti di essere eterno.
(È tramontato il sole, la luce elettrica non viene accesa. Ma dagli occhi di Cecchi Gori parte un lampo)