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 2018  novembre 18 Domenica calendario

Parigi celebra Sergio Leone

Ovviamente qui si inizia con un classico, un bel «C’era una volta»... Ebbene, non aspettiamo il finale: c’è anche adesso. La morale è sempre questa; anzi, come se non bastasse,  c’era una volta, c’è e ci sarà, ancora e ancora, ogni volta che ripeteremo la storia. Sì, non ci poteva essere titolo, intuizione e “ragione sociale” migliore per una mostra che si ripromette di farci compiere un viaggio – e che viaggio – insieme a chi, di queste quattro piccole paroline che spalancano mondi grandissimi, aveva addirittura deciso di fare un marchio di fabbrica: quasi l’essenza stessa della sua, immensa, e mai ben del tutto approfondita (apprezzatissima dal pubblico ma ancora oggi guardata con sospetto da critici superciliosi), arte. Spudorato, senza infingimenti, e senza paura, così era Sergio Leone (1929-1989), il perfezionista, nel momento stesso in cui decideva che il film che aveva in mente si poteva fare: e il “succo” era lo stesso – si trattasse di un peplum, del più “straccione” dei western (genere che non reinventò: no, stravolse e rifondò proprio, dandogli nuovi significati e stilemi formali), del film “d’autore” che tracciava il ritratto di un’esistenza, di un gruppo di amici, e di un’epoca –: vi racconto una fiaba, ci diceva con quelle sue immagini memorabili, perché nelle fiabe è la sapienza e l’esperienza del mondo, perché è nel mito che affonda le radici la nostra essenza di uomini, perché il racconto è il fine e il mezzo con il quale vi incanterò e perché solo così, in definitiva, supereremo, io da questa e voi dall’altra parte dello schermo, il tempo che ci è dato vivere.
E dunque la mostra alla Cinémathèque française a Parigi è giustamente intitolata «C’era una volta Sergio Leone» (fino al 27 gennaio 2019, e poi, sperabilmente, a Roma) ed è un tuffo nel mondo e nell’arte del regista romano. È dovuta alla tenacia con la quale la Fondazione Cineteca di Bologna ne ha amorevolmente, in questi anni, rincorso il mito, affidandolo alle cure del direttore, Gian Luca Farinelli, che firma l’esposizione (con la collaborazione di Antonio Bigini e Rosaria Gioia) e, insieme al massimo esperto del cinema di Leone, Sir Christopher Frayling, un libro che è molto più che un catalogo (La Révolution Sergio Leone, La Table Rotonde, pagg. 512, € 26,50); miniera di informazioni e un ragionamento profondo intorno al cineasta.
Il West, la Rivoluzione, l’America e – si aggiunga – il Cinema stesso, sono argomenti fondativi che Leone (figlio d’arte) non si è mai stancato di circumnavigare e ricapitolare in modo sublime, di volta in volta aggiungendo mito a mito, epica a epica, azione a riflessione, riso a pianto, eroismo a bassezza. Solo 7 film e un’intera cosmogonia portatile che qui trapela, per appunti e divagazioni, per sostanza e sogno, in tutta la sua enigmatica, ironica e persino bizzarra bellezza. C’è il memorabilia per l’aficionado (dal poncho di Clint Eastwood in «Per un pugno di dollari», il film che gli diede gloria e riconoscibilità, alla ricostruzione delle scenografie di quel grande artista che fu Carlo Simi), il cult per il cinefilo (rimandi e citazioni esplicitate; le foto di scena nelle quali Leone mostra agli attori come mettersi esattamente per ciascuna situazione), l’amarcord per lo spettatore semplice (e ci si strugge mentre scorrono, indimenticate, le musiche di Morricone, suo compagno delle elementari, con tanto di foto di classe, e di storie cinematografiche), il documento per i secchioni, che emoziona forse ancora di più: quello che ti fa essere dentro la macchina narrativa di questo genio, nel quale vedi e senti agire fonti e rimandi (c’è la biblioteca privata di casa, o la quadreria, che darà spunti per le immagini, da De Chirico al, sottinteso, Magritte; i contratti cinematografici e le sceneggiature originali, pezzi unici rilegati in marocchino rosso, valore di feticcio).
Il cinema di Sergio Leone e l’allestimento che qui lo concentra ed evoca (uscirete, garantito, con la voglia di rivederne i film e capirete quanto ci sia di lui nel cinema di oggi) è d’attualità disarmante, e non c’è bisogno che ce lo dica Tarantino. Primo regista post-moderno, è stato detto di Leone: forse; certamente autore di grande qualità, nella lunga scia che parte da un signore che si chiamava Omero e le immagini, essendo cieco, le creava, per gli altri, a voce, proprio come Leone raccontava i suoi film... Il suo cinema costruisce un’etica e un’estetica inconfondibili, primordiali e sempiterne: bene e male, con vasti inserti di incertezza, e la loro eterna lotta incarnata: sì cowboy e messicani, gangster e amici, che è lo stesso di cacciatori e cacciati, buoni e cattivi, troiani e greci, giusto e sbagliato, vita e morte (ultimo tema e tema ultimo dei suoi film). Sempre lì si torna.
«Pensavo fosse un’avventura. E invece era la vita», diceva Conrad, ed è il perfetto “compimento”, citato in catalogo, di questa mostra, di questi film, di quest’opera che Sergio Leone ha realizzato, lasciandocela in perenne eredità e custodia. E cos’altro sarebbero, dopotutto, se non questo, la letteratura, il cinema, l’arte – le storie, insomma, che ci tramandiamo e il modo in cui lo facciamo, ostinatamente, con forza e commozione: a voce, per iscritto con parole ritmate, a gesti, per suoni, per immagini, inquadrando in primissimo piano gli occhi stretti di un pistolero che sappiamo vincerà il duello, mentre una musica avvolgente ci riempie la testa? O il sorriso enigmatico, ultimo frame, che riassume una vita e rilancia l’enigma allo spettatore? Quando «controluce / tutto il tempo se ne va», come direbbe Paolo Conte, non ci resta che riprendere il «C’era un volta» e completare con... Noi! Che in quello schermo, in quelle storie, in quel tempo dilatato, fischi, spari, parolacce, dinamite e cuore, ci siamo riconosciuti, abbiamo vissuto, amato. Forse sognato. Ma, forse, no.