Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2018
Il caso delle trasfusioni di sangue infetto in Italia
Chi si aspettasse o cercasse nel libro di Michele De Lucia sulla tragedia delle persone che si sono ammalate fino agli anni Ottanta a causa di trasfusioni con sangue contagiato dai virus dell’Aids e dell’epatite C, una requisitoria scandalistica e giustizialista, alla Travaglio per intendersi, contro medici, industria farmaceutica, politici, insomma l’universo mondo, rimarrebbe deluso. Chi invece fosse interessato a leggere un’indagine basata su fatti, documenti, analisi razionali, garantismo e onestà intellettuale, che mette in discussione luoghi comuni moralisti e giustizialisti, avrà molto da imparare sia sul tema in questione (la politica sanitarie e industriale della raccolta e distribuzione di sangue e derivati) sia su come si costruisce un libro di inchiesta. Un mestiere, anche questo, che sta sparendo. Nell’era dominata dalla superficialità e dagli umori tribali dei social media, cioè da inquisitori che blaterano in nome di un popolo di nuovo pronto ai linciaggi, un prodotto come questo è rarissimo.
L’immunologo Fernando Aiuti, che nella prima metà degli anni Ottanta fu, nel pieno di una campagna bigotta di disinformazione, il protagonista in Italia del primo approccio scientificamente intelligente ed eticamente rigoroso di fronte alla diffusione dell’Aids, scrive nella prefazione che si tratta di «un libro avvincente e molto documentato, che fa chiarezza su alcuni problemi (…)»Aiuti è persona non solo intellettualmente coraggiosa, ma anche rigorosa ed esigente. I suoi apprezzamenti sono un marchio di qualità.
Il problema più importante che questo libro affronta, e quindi la principale lezione di civiltà che trasmette, è che una democrazia liberale non dovrebbe cadere in confabulazioni contraddittorie per assecondare il bisogno emotivo di inventare capri espiatori al solo scopo di incolpare qualcuno per tragedie che non sono colpa di nessuno.
C’è un documento, riportato in appendice, che enuncia questo principio così fondamentale per il diritto, cioè la sentenza del 2005 della Corte di Cassazione. Vi si legge che si può e deve condannare chi abbia commesso con dolo o trascuratezza un reato, ma «in altri casi non è possibile condannare chi in quel periodo faceva trasfusioni di emoderivati potenzialmente infetti perché ancora i virus non si conoscevano». La vicenda riguarda, appunto, l’uso di sangue ed emoderivati commercializzati prima che fossero disponibili i test per controllare la presenza dei virus dell’Aids e dell’epatite C, cioè prima del 1985 per il virus HIV e in modo sicuro prima del 1992 per l’epatite C (fino ad allora chiamata non A e non B).
Il libro ricostruisce con dettagli e una rilevante bibliografia la storia dei preparati per trattare l’emofilia e l’evoluzione dell’organizzazione industriale e sanitarie per raccogliere e distribuire il sangue e i suoi derivati, adottando strategie diverse a seconda dei paesi, ovvero con alcuni paesi che ricorrevano solo alla donazione gratuita e altri che pagavano chi dava il sangue. De Lucia sfata anche il mito che la donazione gratuita sia più sicura o moralmente superiore; ovvero è una balla l’idea che «gratuito» equivalga a «sicuro»: Aids e epatite C si sono diffuse anche attraverso il sangue utilizzato dagli ospedali italiani, che viene tutto da donatori gratuiti. E la Francia, altra patria della donazione gratuita, ha avuto tassi di contagio tra i più alti.
La raccolta di sangue e plasma era andata incontro a dinamiche mediche, economiche e sanitare confuse e rischiose, in assenza di regole e metodologie definite. L’osservazione dei primi casi di Aids nel 1982 e quindi la scoperta che la causa è un retrovirus impensabile fino a pochi anni prima da parte dei ricercatori, ha creato il panico e allo stesso tempo prodotto una figura particolare di malati, cioè persone che non avevano tenuto alcun comportamento a rischio, come rapporti sessuali o scambi di siringhe, ma ricevuto come terapie trasfusioni o derivati da sangue infetto. Vi erano le condizioni perché si scatenasse la caccia all’untore. Era facile imputare all’industria o ai sistemi sanitari la mancanza di controllo: ma quali controlli si potevano fa in assenza dell’idea stessa che potesse esistere il virus dell’Aids, o con tutti i dati che facevano pensare che il virus dell’epatite C non fosse troppo patogeno? Infatti, non appena si sono potuti indentificare i virus, sono stati sviluppati test per il controllo e procedure per sanificare il sangue e i suoi derivati.
De Lucia racconta la superiorità etica e in termini di efficacia sociale di un diritto liberale e non tribale, per quanto riguarda gli aspetti giudiziari. Il suo è anche libro scientifico in quanto evita di usare ragionamenti non plausibili o dare giudizi emotivi su decisioni in condizioni di incertezza: che fare con una sacca a rischio a disposizione e in assenza di test, di fronte a un paziente che rischia intanto di morire per una emorragia? Quante persone sono state salvate con decisioni che, in qualche caso, hanno causate un’infezione grave o letale? Potrebbe essere scontato dirlo. La militanza dell’autore nel Partito Radicale e l’appartenenza all’Associazione Luca Coscioni dimostrano quando questo paese, in termini di formazione civile alla verità, deve a un pensiero libertario che purtroppo, per ragioni che sarebbe interessante indagare, non ha influenzato la cultura politica e civile.
L’idea che sia giusto perseguire i medici o le imprese o dei ministri e funzionari per qualcosa che non potevano sapere non coincide con la giustizia, ma è un perverso e naturale meccanismo di creazione di un fittizio e comodo colpevole per ragioni di psicologia sociale. In questa vicenda è stata presa di mira l’industria farmaceutica, soprattutto la famiglia Marcucci, anche se De Lucia mostra che di prove di reato non ve ne erano, e il coinvolgimento del ministro De Lorenzo e del “mostro” Duilio Poggiolini, che erano stato condannati per corruzione, non poteva che scatenare l’ulteriore linciaggio. I processi hanno capovolto la logica pregiudiziale con cui era stata condotta l’inchiesta. Così è stato e così ancora potrà forse essere, fino a quando in Italia sarà in vigore lo stato di diritto, che però non piace agli amici illiberali di Orban e ai nipotini di Rousseau.