Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2018
Cina, gli effetti economici della politica del figlio unico
Un esperimento, di solito, viene condotto in un laboratorio, dietro spesse pareti che proteggono l’ambiente circostante. Il motivo è ovvio: è una pratica ludica, in cui si mette la realtà sotto pressione per studiarne conseguenze in larga misura imprevedibili, talvolta distruttive. Bisogna giocare per imparare; ma è bene che, quando un bambino gioca da solo, le prese di corrente siano coperte e le finestre chiuse, e che si prendano misure analoghe quando giocano i grandi.
Capita però che si conducano esperimenti, anche audaci e ambiziosi, senza misure di protezione e in uno spazio pubblico, se un’entità individuale o istituzionale acquista potere sufficiente da permetterle piena libertà di movimento, e allora è una nazione o l’intera umanità a correre rischi esistenziali. I piani quinquennali di Stalin furono l’incubo escogitato da un tiranno; la criminale distruzione dell’atmosfera di cui siamo testimoni è il genio uscito dalla bottiglia di un’onnipotente finanza internazionale che non contempla alternative a un percorso delirante di «crescita». Figlio unico, di Mei Fong, giornalista cino-malese naturalizzata americana, vincitrice di un Premio Pulitzer nel 2007, ci dà un altro esempio di catastrofico gioco pubblico portandoci in Cina, dove, all’indomani dei disastri causati dal Grande balzo in avanti e dalla Rivoluzione culturale di Mao, i suoi successori lanciarono «l’esperimento sociale più estremo mai realizzato al mondo», che durò trentacinque anni (dal 1980 al 2015) e «continua a influenzare il modo in cui una persona su sei nasce, vive e muore». Si trattava, appunto, della politica del figlio unico.
Gli orrori di questa politica sono ben documentati da tempo e Mei Fong vi accenna senza insistervi: sterilizzazioni, aborti coatti anche a poca distanza dal parto, infanticidi, sottrazione o rapimento di bambini per farli vivere (e spesso morire) in orfanatrofi-lager o venderli sul mercato delle adozioni internazionali, multe salatissime e atroci vessazioni per chi non rispettava il diktat emesso dal governo centrale e applicato con punitiva efficienza dagli organi locali.
Da ex-giornalista del Wall Street Journal, che lasciò nel 2013, Mei Fong è però soprattutto interessata all’impatto sociale ed economico dell’esperimento. Le cui motivazioni apparivano fondate: la leadership cinese lo considerava un passo fondamentale per strappare alla povertà un popolo di dimensioni enormi e avviarlo a un prospero futuro. Siccome nei decenni successivi l’economia cinese è decollata in modo impressionante, molti osservatori hanno «dovuto, seppur malvolentieri, ammettere di nutrire una certa ammirazione per la rapida crescita economica della Cina, un successo in parte attribuito proprio alla sua politica demografica». Si trattava però, spiega Mei Fong, di un classico caso di post hoc, ergo propter hoc: secondo l’economista Arthur Kroeber, intervistato nel 2014, solo lo 0,1% della crescita della Cina è da attribuire a questa dissennata politica. Una delle ragioni invece, secondo Mei Fong, è la presenza di molti, non pochi, abitanti, quindi di ingente manodopera a basso costo; il resto lo hanno fatto l’apertura agli investimenti stranieri e l’imprenditoria privata. Ma c’è di peggio: oltre a non contribuire alle fortune del Paese, la politica del figlio unico ha pesantemente contribuito a danneggiarle.
La Cina sta invecchiando. Entro il 2050, una persona su quattro avrà più di 65 anni e una generazione di figli unici non sarà in grado di sostenere tanti anziani. La predilezione per un figlio maschio ha portato a uno sterminio di femmine (Amartya Sen ha stimato che in Asia l’aborto selettivo e l’infanticidio abbiano fatto scomparire cento milioni di donne, la metà delle quali in Cina), elevando la proporzione fra maschi e femmine fino a 119 a 100 (nel mondo è 105 a 100) e generando uno squilibrio che nel 2020 sarà dai trenta ai quaranta milioni di uomini in più. Per garantirsi una moglie, gli scapoli e i loro genitori pagano cospicue doti alla rovescia e s’indebitano per comprare un appartamento, generando un’impennata dei prezzi delle case che dal 2003 al 2009 ha raggiunto il 48 per cento. Non è stato un buon affare: crudeltà e abusi non hanno nemmeno l’alibi di aver fornito vantaggi strumentali. Forse, prima di giocare con le vite umane, sarebbe stato bene esercitare un minimo di cautela.