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 2018  novembre 18 Domenica calendario

A New York una mostra su Valadier l’orafo senza soldi

«Che caso terribile. Mr Luigi Valadier si è buttato a fiume» scrive, forse per una volta commosso, quell’uomo freddo, intelligente e piuttosto spietato che era lo scultore Vincenzo Pacetti. Parla di un suo amico e anche di un suo compagno di affari: la maggior parte degli artisti romani del Settecento era costretta ad occuparsi di soldi e di negozi. Anche se avevano successo e il mestiere andava bene, farsi pagare dai committenti era difficile quanto scolpire un marmo, dipingere una tela, o fondere un argento. Alcuni riuscivano ad essere ricchi, come Pacetti, ma il povero Valadier, che di commesse e di clienti ne aveva avuto tanti – addirittura papi e sovrani – era indebitato fin sopra ai capelli. E le cose andavano così a rilento da essere stato costretto ad associarsi a tale Giuseppe Amici che gli versò il 13 gennaio 1780 una cifra enorme, diecimila scudi, riservandosi però un profitto annuo colossale, il ventiquattro per cento (così scrive il grande biografo degli argentieri romani, Costantino Bulgari). Come si fa a vivere o a poter lavorare con un tale onere? 
Il lavoro, come ho già detto, non gli mancò mai. Suo padre era francese, nato ad Aramon, un paesino della Provenza e non sappiamo per quale motivo aveva deciso di trasferirsi piuttosto giovane a Roma. Andrea (André nelle carte originali) Valadier era stato battezzato nel 1694 e doveva essere a Roma prima del 1720 se l’8 dicembre di quell’anno è iscritto nella lista dei lavoranti degli orefici romani. La patente per esercitare in proprio giunse solo nel 1725 e a quanto sappiamo egli rimase sempre a Roma.
Luigi fu il suo primo figlio maschio, nato a Roma il 26 febbraio 1726, più francese che italiano, essendo anche nipote per parte di madre di un sarto francese. Prestissimo lavora col padre e i loro nomi congiunti risultano nei pagamenti per la fusione della cancellata per il Battistero della Patriarcale di Lisbona, fra il 1744 e il 1747, opera eseguita a Roma e commissionata da Giovanni V di Portogallo.
In quegli anni Andrea Valadier è già un orafo noto e conta come poi si vedrà diversi clienti importanti, membri della più alta aristocrazia e delle dinastie papali come i Giustiniani, gli Sforza Cesarini, i Borghese, i Colonna. Luigi farà di meglio e diverrà in poco tempo uno dei più famosi argentieri d’Europa, ma non solo argentiere, lo si è accennato: come suo padre fu un esperto fonditore di bronzi (…).
Sia Andrea che Luigi Valadier lavorano per la famiglia Borghese: il Principe Camillo era sposato ad Agnese Colonna e quando morì, nel 1763, il figlio Marcantonio, quarto del suo nome, divenne l’uomo più fastoso di Roma e il maggior cliente di Luigi Valadier. Forse anche il più generoso o almeno – se leggo bene le decine di conti che l’amministrazione Borghese saldò al nostro orafo lungo gli anni – quello che lo fece meno soffrire degli altri. Bizzarramente ambedue, sebbene a distanza di tre lustri, sembrano aver perduto il lume della ragione per motivi economici. A forza di pagare cifre colossali per il Trattato di Tolentino, una vera ecatombe per Roma, e per i dispiaceri che gli recavano i due figli “giacobini”, Don Marcantonio, che aveva anche perso il titolo di principe, non era «più troppo con la testa a segno». A Tolentino si firmano i protocolli per l’ultimo atto dell’ancien régime e Pio VI, che aveva fatto Cavaliere Valadier favorendolo sempre, fu messo senza tanti complimenti alle porte del suo reame dopo aver sborsato quindici milioni di scudi in parte pagati dai principi romani (…). Come si è visto, per intendere le relazioni artistiche nella Roma settecentesca non si può fare a meno di considerare le parentele fra i rappresentanti dell’oligarchia che governava la città da qualche secolo. Se si guardano attentamente persino i disegni per gli argenti di quei pittoreschi personaggi si riescono ad intendere le regole e le alleanze sociali della città. 
Luigi Valadier non riuscì ad allontanarsi mai del tutto dall’incanto che il gusto francese esercitava su di lui. Ma la sua natura non fu soltanto questo: il secondo magnete per la sua anima fu l’antichità o il classicismo, seppur sempre controbilanciato da una grazia delicatissima che porta più al capriccio che alle norme. L’incantesimo del rococò esercita su di lui la maggior forza proprio attorno (anzi subito dopo) al suo viaggio a Parigi del 1754: il lustro seguente segna i suoi ultimi tempi nella bottega del padre, a San Luigi dei Francesi. Nel 1762, ma non sappiamo esattamente il momento, decide di lasciare al fratello più piccolo, Giovanni, la bottega paterna (Andrea era morto nel 1759) e nasce il suo figlio e successore Giuseppe. È un anno dunque trascendentale: Luigi si trasferisce con la famiglia in una bottega più importante in quel che è oggi via del Babuino all’angolo con gli Orti d’Alibert. Attorno a quel momento abbiamo dei disegni datati o databili che contano fra le sue più felici espressioni grafiche. Uno di questi fogli è quasi un piccolo rebus, che credo abbiamo sciolto. Raffigura un oggetto squisito quanto inutile, a Roma lo si definiva “digiuné” termine traslitterato alla buona dal francese. È un’alzata destinata a reggere quel che occorre per sorbire una tazza di cioccolata o di caffè: i motivi decorativi sembrano essere soprattutto rametti di quercia, ma fra essi si annida un drago. Due simboli: la quercia dei Chigi e il drago dei Boncompagni. Se ci si fa aiutare dagli alberi genealogici di quelle due famiglie patrizie ci si imbatte presto nel matrimonio fra Laura Chigi e Ignazio Boncompagni Ludovisi nel 1726. Con un po’ di attenzione noi stessi abbiamo risolto alcuni di questi indovinelli e altre ne potrà risolvere il lettore attento. 
La vicinanza a piazza di Spagna che Luigi Valadier ricorda non senza compiacimento ogni qualvolta parla del proprio studio, dette subito i suoi frutti. Da quelle parti risiedeva l’Ordine di Malta e andavano e venivano gli stranieri facoltosi. Non è forse casuale che proprio in quel momento Luigi Valadier abbia ricevuto una delle commissioni più importanti, i bronzi ordinatigli da Lord Northumberland: le tre magnifiche statue per Syon House, ancora oggi in uno stato di conservazione mirabile, testimoniano le eccezionali capacità di Valadier in questo campo. La prima era pronta sin dal 1765. Nel 1763 James Adam aveva scritto da Roma in Inghilterra chiedendo se era il caso di inviare due marmi eseguiti da Filippo Della Valle per Syon: Filippo Della Valle, scultore di notevole talento, era il suocero di Valadier e James, fratello di Robert Adam che stava allestendo in quel momento Syon, era al corrente di tutto. È stato scritto più volte come Della Valle possa aver in qualche modo influenzato lo stile dell’altare di Monreale. Il suocero muore proprio nel momento in cui Valadier espone al pubblico una parte di quel suo importante lavoro, nel 1768.
La famiglia ebbe sempre importanza per Luigi, e Filippo divenne il suo secondo padre. Della Valle inoltre aveva diverse figlie: le sorelle della moglie di Valadier sposarono artisti che in qualche modo sono presenti nella carriera di Luigi, il pittore ticinese Cristoforo Unterperger e lo scultore spagnolo Juan Adán. Scambi di idee e di relazioni a mutuo beneficio non furono infrequenti. 
Questa attività sociale e persin mondana certamente aiutò la nomina nel 1765 di Valadier nella Congregazione dei Virtuosi del Pantheon, rara per un orafo. Questi anni vedono, credo, la sua vicinanza più marcata alla graziosa trasformazione del barocco in quel che a Roma si chiama giustamente con un termine intraducibile “barocchetto”, una forma particolare della grande tradizione della città toccata dal rococò francese e talvolta tedesco. L’altare di Monreale (1768 e oltre) ne è un buon esempio, quello più solido e architettonico, mentre il tabernacolo d’oro di Siviglia (1771) è più prezioso non solo per la materia ma anche per il gusto che tende al fiammingo degli spagnoli. I grandiosi lampadari di argento di Santiago de Compostela (1764) sono quanto di più rococò si sia fatto nel campo degli argenti romani.