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 2018  novembre 18 Domenica calendario

A tavola con Paolo Conte

«Et alors, Monsieur Hemingway, ça va?». “Et alors, Monsieur Paolo Conte, ça va?”. I muri sono alti e spessi. Sulle pareti arancioni si stagliano alberi equatoriali neri. C’è un animale che sembra un cavallo oppure una zebra, dipende soltanto dalla fantasia di chi lo guarda. E, poi, ecco un arciere che scocca la freccia, potrebbe essere il disegno di un bambino oppure un personaggio del mito greco. La severità architettonica dell’edificio di Borgo Dora a Torino – per secoli arsenale e caserma – viene resa leggera, ironica e paradossale dalla natura adolescenziale dell’estetica e dall’odore di vita giovane della Scuola Holden, creando un ambiente appunto à la Conte.
Fuori piove un mondo freddo”. In questa sera di prime nebbie e di prime piogge, Conte è seduto su una poltrona, le tazzine di caffè e le sigarette, i cioccolatini di Peyrano e una caraffa d’acqua fresca. Il suo maglione è nero e i pantaloni sono marroni. Gli occhi acquosi e il naso prominente. Ha lo sguardo stanco ma non annoiato, anzi quasi felice, di chi, all’età di 81 anni, ha passato tutto il pomeriggio con i ragazzi – età media 23 anni – ai quali ha confidato che «sì, mi sarebbe piaciuto fare il medico» e ha spiegato che «il jazz vuol essere smontato, guardato e compreso nella sua struttura interna». Conte è gentile ma non affettato, timido ma non burbero, riservato ma non freddo. È, con discrezione, interessato agli altri: «Mi scusi se metto e tolgo gli occhiali scuri, ma questa luce mi infastidisce. Di dove è lei?», mi chiede. «Io sono di Ivrea». E, lui, sorridendo: «Eh, eh, io sono di Asti. Ah, a Ivrea c’è il Carema. Un grande vino. È sempre buono il Carema di Ferrando? È il nebbiolo delle montagne».
Per la mia sensibilità per le mie scarpe lucidate. Per il mio tempo per il mio gusto. Per tutta la mia stanchezza e la mia guittezza”. Eccolo qui, l’avvocato di Asti, nella sua normalità fisica di uomo di provincia e di città, di realtà e di immaginazione, di suoni e di poesia: «Se sono stanco? Sì, sono stanco, ma dobbiamo fare queste cose», dice riferendosi ai dieci concerti del nuovo tour, fino all’agosto dell’anno prossimo a Colonia, in Germania, e indicandomi nella stanza con un rapido gesto della mano e con uno sguardo furtivamente affettuoso tutti quelli che – in diverse forme – collaborano con lui quando entra in un teatro e prima che questo accada. Conte prende le noccioline sgusciate e le assaggia, mentre spiega che la professione è prima di tutto dedizione e impegno, non importa se fai il curatore fallimentare – uno dei suoi primi lavori, da avvocato – oppure se ti dedichi all’arte e alle muse – come dice autoironicamente – e finisci per scrivere una delle colonne sonore dell’anima italiana come “Azzurro”.
Oggi la benzina è rincarata, è l’estate del ’46, un litro vale un chilo di insalata, ma chi ci rinuncia? A piedi chi va? Ah l’auto, che comodità! Sulla Topolino amaranto... dai siedimi accanto, che adesso si va”. Lui, durante questo aperitivo atipico composto da acqua minerale, analcolici e alcolici leggeri, si stiracchia sul divano e inizia ad accarezzarsi perplesso la guancia segnata dalla barba di fine giornata, quando gli chiedo di una Italia contraddittoria, infinita e piena di moltitudini che oggi appare – allo stesso tempo – disperata, rassegnata e desiderosa di ricostruire e di ricostruirsi. «Di sicuro, l’Italia del dopoguerra era un’Italia piena di vita. C’era una grande gioia di vivere. Anche i falliti che raccontavo nelle mie canzoni destavano simpatia e identificazione e avevano grandi energie e, in fondo, grande forza». Nell’Italia di oggi, la vita è spesso ricordo e la realtà è talvolta memoria, e così – rispetto al futuro difficile – gli anni del Boom sono quasi il feticcio di quando eravamo felici e tutto era possibile. Conte è un cantante impolitico. E, dunque, il suo pensiero e la sua sensibilità sono lontani dagli strani giorni che stiamo vivendo: «Se l’Italia rischia di fallire? Non lo so. Ho fatto per qualche tempo il curatore fallimentare e, da quel lavoro, ho tratto ispirazioni, situazioni e personaggi. Ma, davvero, non mi sono mai interessato di politica». La costruzione del mondo di Conte è, insieme, dentro alla Storia, ma fuori dal Tempo. 
“Era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti”. Paolo Conte accartoccia le mani, si sposta di là e di qua. Nessun inchino e nessuna inquietudine. Non sembra di certo un orango. Conte ha una preoccupazione costante: non passare per un retore, non apparire un padre della patria, non atteggiarsi a interprete dello spirito della nazione, anche se in fondo – con le emozioni e i significati che ha creato per gli italiani – un poco lo è. Non ha nessuna posa da intellettuale: «Ma sì, guardi che io ho sempre letto poco», quasi si scusa. Vive nel suo universo interiore, ma non ha alcuna attitudine sprezzante rispetto al mondo che lo circonda, anche se sa che è un mondo difficile: «L’omologazione: i sentimenti, i desideri e le paure mi paiono tutti molto uguali. E anche i caratteri e le persone tendono a sovrapporsi». Non è sprezzante e, tanto meno, esercita il moralismo della senescenza, perché il mondo adulto in cui si sbaglia da professionisti non è appannaggio di una generazione piuttosto che di un’altra, ma può essere di tutti: «Mi piacciono i ragazzi di oggi, li conosco anche attraverso i figli di mio fratello Giorgio. Li vedo attenti e volitivi, più intelligenti di noi che eravamo timidi e impacciati e che facevamo tutto come si poteva fare, e nulla di più». 
Via, via, vieni via con me. Entra in questo amore buio. Non perderti per niente al mondo lo spettacolo d’arte varia di uno innamorato di te”. Conte ha raccontato più di mezzo secolo di vita degli uomini e delle donne. Con lui, il Tolstoj del “se vuoi essere universale, parla del tuo villaggio” ha assunto la forma delle canzoni dei “ragazzi-scimmia del jazz”. I dolori e i fallimenti. Ma, anche, gli errori da professionisti e l’umanità adulta: «L’ho pure scritto nella “Ricostruzione del Mocambo”: “Dopo le mie vicissitudini, oggi ho ripreso con il mio bar, dopo un periodo di solitudine, ecco qui il Mocambo tutto in fior... Il curatore sembra un buon diavolo, oggi mi ha offerto anche un caffè, ma ha poi sorriso dato che ero un po’ giù”». E, pronunciando queste parole, accenna il loro motivo musicale. I dolori e i fallimenti, l’umanità e l’erotismo. «Una delle cose che, in tutti questi anni, mi ha più impressionato è il mutamento dei rapporti fra uomini e donne. Una volta non ci parlavamo. Poi è cambiato tutto». Gli uomini e le donne, le loro anime e i loro corpi. E, mentre ne parla, mi viene in mente il crescendo sincopato di “Boogie”: “Due note e il ritornello era già nella pelle di quei due. Il corpo di lei mandava vampate africane, lui sembrava un coccodrillo. I saxes spingevano a fondo come ciclisti gregari in fuga. Quei due sapevano a memoria dove volevano arrivare”.
Vita d’artista... come l’ho vista... ho detto: questa è la mia... ma cosa resta?... tutto inventato, e regalato a chi?” «Per me fare il musicista è sempre stata una cosa fra il dovere e il piacere», spiega. Il jazz, di quella America inseguita e immaginata, inventata e amata dove lui – come in una sua canzone – andrà soltanto nel 1996, in occasione di un concerto al Blue Note di New York. La musica francese, l’altro caposaldo di una vita spesa tra la fantasia e l’esibizione, il denudarsi dietro al pianoforte ovunque nel mondo e il ritrovare l’intimità di Asti. Paolo Conte si versa un bicchiere di acqua minerale dalla caraffa: «Non ho mai avuto la foia». Anche se, poi, sulla musica e sulle parole pone una distinzione: «Ho goduto di brutto componendo musica. Quelle che mi hanno dato più piacere sono state “Gli impermeabili”, “Via con me” e “Madeleine”. Per le parole, invece, direi “Diavolo rosso”».
E vai che io sto qui e aspetto Bartali, scalpitando sui miei sandali, da quella curva spunterà quel naso triste da italiano allegro, tra i francesi che si incazzano e i giornali che svolazzano”. «Mi ricorda per cortesia qual è il suo giornale?», mi chiede in piedi, mentre armeggiamo con i bicchieri alla fine del nostro incontro. «Ah, Il Sole 24 Ore? Il giornale degli avvocati». «Degli avvocati, ma non solo», gli dico bevendo il mio Negroni ghiacciato e osservando lui che, invece, prende un Crodino. «Sì, però, gli avvocati...», sorride. E, poi, mentre ci salutiamo lui accenna a cantare “Parole d’amore scritte a macchina”: «Memorabili frasi d’amore scritte a macchina, la nostra storia d’amore in quattro pagine, che raccontata ci può perdere, ah il tuo avvocato è proprio un asino, no certe cose non si scrivono, che poi i giudici ne soffrono».