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 2018  novembre 18 Domenica calendario

Intervista a Beatrice von Rezzori

Ecco avanzare una donna con in braccio un carlino. Il cane sbava felice. La donna, ha superato i 90 anni, si scusa e dice che il cane fatica a camminare. Ha le zampe posteriori minate da una malattia. Lo poggia delicatamente sul divano dove ci sediamo, poi comincia a parlare. E non so se concentrarmi sulle sue labbra o sul muso rincagnito dell’animale il cui sibilo riproduce il suono di un giocattolo surreale. Beatrice Monti von Rezzori lo ama più dei quadri che arredano la parete, più delle foto che sono la sua memoria fatta di eleganza e di altrove. Come in una Belle Èpoque risorta miracolosamente in un punto della Toscana a mezz’ora di macchina da Firenze, vive questa donna che fu moglie e vedova da vent’anni di Gregor von Rezzori: « Con lui non ho mai conosciuto la noia. Sapeva essere molto solare, con qualche punta di malinconia che lo portava a chiudersi. Vede quella casettina di fronte a dove siamo? Lì c’era il suo studio. Lavorava a volte anche 16 ore al giorno » . Madame Rezzori ha una caratura indiscutibilmente internazionale. Vive parte dell’anno a New York e i rimanenti mesi a Donnini dove ha allestito una fondazione che ospita scrittori provenienti da tutto il mondo: «Uno dei frequentatori assidui era Bruce Chatwin. Zadie Smith vi arrivò che aveva 25 anni. Si trascinava dietro un successo pazzesco. Le scrissi una lettera in cui le suggerivo di tirarsi fuori da quella sarabanda. E venne per restare un paio di mesi».

C’è un rapporto tra un luogo e la scrittura?
«Se il luogo ha un’anima il legame si stabilisce. Più giù del casale c’è una torre dove di solito vivono e scrivono i miei scrittori ospiti».
Le piace questa vita?
«Non potrei farne a meno. Non sono una scrittrice e neppure un’intellettuale. Amo definirmi una facilitatrice. Se i contatti riescono a volte producono scintille di creatività».
Dove è nata?
«Sono nata a Roma. Mia madre era di origini armene. La sua famiglia scappò dalle persecuzioni del primo Novecento. Era gente ricca. Il mio bisnonno era il banchiere del sultano. Uno zio, di ascendenze polacche, applicò il codice di Napoleone alle leggi turche. E quando la repressione si scatenò, la fuga fu favorita dall’ambasciata francese».
Andaste perciò in Francia?
«A Parigi, ma di lì ben presto la famiglia si trasferì a Roma. Fu qui che i miei si sarebbero conosciuti. Si sposarono nel 1925 e io nacqui nel 1926. La mamma morì di tifo che avevo 6 anni. Seguii mio padre in Etiopia, era a capo di un ufficio studi che si occupava di restauri. Fu un periodo felice. Conobbi bene Curzio Malaparte. Era lì per scrivere dei reportage sull’Africa. Mi parlava di quei posti come se fossero la quintessenza dell’insidia. Capii che nella mia vita avrei dovuto trovare uomini intelligenti e avventurosi».
Quando dice un periodo felice intende che questo stato di cose si ruppe subito dopo?
«Tornammo a Roma e mio padre si risposò. Ne aveva il diritto, ma non quello di tacermi il matrimonio. E poi la matrigna, di cui appresi l’esistenza solo un anno dopo, era insopportabile. Cugina dell’architetto Piacentini, emanava l’asprezza segaligna delle donne ingenerose. Convinta che tutto le fosse dovuto. Fu un periodo di rara infelicità, mitigato l’estate dalle vacanze a Capri».

Un’isola mondana. Quanto le corrispondeva?

«A 12 anni coglievo un tempo vissuto precocemente. Conobbi Moravia e la Morante. Si avvicinava quel rumore della guerra rimosso nelle tante brillanti conversazioni. Ricordo le tavolate con Vittorio Gorresio, Palma Bucarelli e il suo compagno Paolo Monelli, ma anche Graham Greene e Norman Douglas. C’era una stravaganza solare. Coppie gay e lesbiche festeggiavano i loro amori, altrove proibiti».
E la coppia Moravia e Morante?
«Viveva piuttosto appartata. In una pensione di Anacapri. Dividevano la stessa stanza con due scrivanie alle quali suppongo lavorassero. Erano fuori dal clamore libertino. A questo proposito ricordo Madame de Saint- Exupéry di cui ignoravo certe predilezioni per il genere femminile. Mi invitò un tardo pomeriggio a una passeggiata, approdammo in un punto fantastico di Anacapri. Mi disse: sei in un posto sublime, chérie, ma sei anche pronta per godere di altre cose sublimi? Ci risi sopra, disarmando così le sue intenzioni. Ho sempre saputo difendermi dagli uomini e dalle donne».
Capri voleva dire anche Malaparte.
«Certo, l’uomo più affascinante che avevo conosciuto fino a quel momento. Fu lui a un certo punto a chiedermi un piacere. Una gallerista, Daria Guarnati, bruttina e intraprendente, amante di Gio Ponti, si offrì di pubblicare per le sue edizioni d’arte Kaputt e La pelle. Malaparte si era un po’ inguaiato con i suoi editori e per questo accettò. La signora, a quanto pare, non pagava i diritti allo scrittore e io avrei dovuto controllare se davvero usava i soldi che gli spettavano per finanziare la galleria».
Cosa accadde?
«Accadde che vendetti qualche gioiello di famiglia e divenni socia della Galleria del Sole. Eravamo a Milano, a due passi dal Bagutta. Così cominciò quasi involontariamente la mia avventura artistica. Fu un periodo denso: segnato da intuizioni importanti. Nel 1957 feci la prima mostra in Italia di Francis Bacon. A seguire quella di Rauschenberg. Divenni amica di Leo Castelli, che nel frattempo si era separato da Ileana Sonnabend. Castelli era un triestino trapiantato a New York. Fu un uomo geniale, un facilitatore di rapporti, come lo sarei diventata io. Conobbi bene Saul Steinberg, che aveva fatto l’università a Milano. Fui amica di Henri Michaux e di Sebastian Matta, ma anche di Jasper Johns: incontrai più volte Giacometti. E un giorno, nella villa dei Feltrinelli, a Salò, conobbi Grisha, Gregor von Rezzori. Era il 1963».
Come iniziò la vostra relazione?
«In modo singolare. Recuperò dall’acqua della fontana un sasso che avevo tirato al mio cane, anche allora un carlino. Mi stupì quest’uomo, che scoprii essere amico dell’editore Ernst Rowohlt. Tanto squattrinato quanto dotato di grande fascino. Aveva due mogli alle spalle. E un passato mitteleuropeo».
Era nato in Romania.
«Era nato a Cernowitz in Bucovina. Il padre era stato un sovraintendente per il restauro delle chiese. Con Grisha ci sposammo a Dallas nel 1965; nel 1967 decidemmo di andare a vivere in Toscana. Avevo lavorato nel mondo dell’arte. Guadagnato bene. Chiusi la galleria nel 1980. Un giorno venne a trovarci Alex Liberman, il capo della Condè Nast. Ma che farai, che farete, qui in campagna? Alex era figlio di un ricco commerciante di legname che aveva finanziato i menscevichi e per questo dopo il 1917 dovette fuggire in America. Sposò una campionessa di sci, una svizzera che lasciò per Tatiana Yacovleva, esule come lui e amante di Majakovskij. Per vent’anni ho lavorato con Alex, viaggiato in tutto il mondo. Poi ci ritirammo definitivamente in questo splendido isolamento. Mitigato dagli amici che venivano a trovarci. Artisti, scrittori, personaggi, a volte bizzarri, che provenivano da tutto il mondo».
Chi furono i primi che ospitaste?
«Su tutti Patrick Leigh Fermor, uno tra i più affascinanti nomadi che abbia conosciuto. Paddy aveva scritto un bellissimo libro di viaggio A Time of Gifts (Tempo di Regali), dove raccontava il suo cammino a piedi dall’Europa fino a Costantinopoli. Si fermò per due anni in un paesino della Romania, innamoratissimo di una signora, e solo quando il rapporto finì proseguì per Istanbul. Fu un romantico attraversatore di confini. Mi chiedo cosa direbbe della nostra attuale Europa».
Un altro celebre viaggiatore che è stato spesso suo ospite fu Bruce Chatwin.
«Un piccolo e straordinario monarca senza regno. Fu lui a suggerirmi l’idea che questo posto era un luogo dove gli scrittori potevano arrivare, sostare e creare. Bruce vi scrisse alcuni capitoli del romanzo Sulla collina nera, la storia di due gemelli che per tutta la vita fanno esattamente le stesse cose».
Com’era al di fuori dei suoi racconti?
«Era vanitosissimo. Ma come sempre, quando si conosce una persona, bisogna lasciare da parte la prima impressione. Mi divertiva con le sue storie, spesso inventate. Recitava da fantastico attore. La sua perdita è stata per me e per Grisha una tragedia ».
Quando venne qui la prima volta?
«Mi pare sul finire degli anni Settanta. Non era ancora malato. Non sapevamo nulla della sua omosessualità e lui non faceva niente per esibirla. Grisha restò fortemente colpito da questa presenza così coinvolgente. Forse solo Ugo Mulas, il grande fotografo, fece su di lui lo stesso effetto. Due nature opposte e complementari. Al punto di trovare straziante la loro morte. Uno di Aids, l’altro divorato da un cancro».
Mi pare che Chatwin fosse molto restio a parlare di Aids.
«Venni a saperlo da Elizabeth, la moglie di Bruce. Lui non ne parlava. Anzi, negli anni della malattia negava ogni legame con quella che era stata definita l’ultima peste del ’900. Non pronunciò mai quella parola. E un giorno disse che aveva contratto un virus dagli escrementi dei pipistrelli. Se dovrò morire, aggiunse, sarà per colpa di una malattia stravagante».
Quando lo vide l’ultima volta?
«Mi pare fu in casa di Elizabeth. Pochi mesi prima venne a trovarci un’ultima volta. I capelli ormai radi, quegli occhi inconfondibilmente blu segnati da una febbrile esaltazione. A tavola gli portai del caviale. Ma non ce la faceva a tenere il cucchiaio in mano, tanto la mano tremava. Dovetti aiutarlo. “Mi piace che ti prenda cura di me”, disse, con un soffio di voce».
Cosa pensa dello scrittore?
«Secondo me fu straordinario. Il suo modello era Robert Byron. Scriveva ciò che vedeva e allargava con gli occhi della fantasia. Non a caso fallì nel momento in cui volle scrivere una teoria del nomadismo. Non era uno scrittore astratto. Quando parlò di questa difficoltà a mio marito, Grisha gli disse: fai quello che hai sempre fatto».
Ora che entrambi non ci sono più come reagisce?
«Ho un’età in cui mi considero una sopravvissuta di lusso. E se penso ai miei amati scrittori che non ci sono più, dico che restano le loro opere. Quando Grisha è morto nel 1998 credevo di non sopravvivergli ma ho anche pensato che la cosa più importante fosse ricordarlo con un gesto concreto. Così è nata la Fondazione Santa Maddalena che ogni anno, per alcuni mesi, ospita un certo numero di scrittori. Qui a Donnini sono venuti in tanti: Michael Ondaatje, Robert Hughes, Edmund Wilson, Anita Desai e Michael Cunningham. Ma anche registi come Pedro Almodóvar e Bernardo Bertolucci. Hanno trascorso dei periodi studiando, leggendo, scrivendo. Intrattenendoci con la loro sapienza».
Come definirebbe questa comunità ideale?
«Di spiriti liberi. Come lo era Chatwin. Persone capaci di ribellarsi al mero ordine razionale ma conservando il senso della disciplina. Per tutta la vita, mi diceva Grisha, ho vissuto alla giornata. Vorrei morire senza fare programmi ulteriori. Era stato malato ma ce l’aveva sempre fatta. Poi, dopo un ictus, lo portai in un ospedaletto alle Figline. Non voleva starci. Tornammo a casa in un’alba bellissima. E per tre giorni accompagnò la sua fine con il sorriso. Detestava il cattivo umore nelle persone. Diceva che era una cosa molto volgare. Come volgare era per lui la stupidità, che a suo dire faceva più danni della crudeltà».
Come è stato vivere insieme per così tanto tempo?
«Molto interessante e per niente facile. Anch’io non sono una persona semplice. La mia vita è stata votata alla bellezza e alla bizzarria. Senza questa, la bellezza può essere molto noiosa. Non ho mai provato nostalgia per quello che ho fatto. Ma ho avvertito un’acuta nostalgia per tutte le cose che non ho avuto. E sono attratta da ciò che è bello e interessante».
Cosa prova in questi casi?
«Un senso di stupore profondo. Qualche tempo fa venne qui per una decina di giorni Margaret Atwood. Venne con il marito. Mi colpì quest’uomo che sembrava un Tolstoj dei nostri giorni. Poi mi ha confessato che per uno scompenso cerebrale non poteva più leggere e che la sua vita ora si concentrava nel guardare le cose del mondo. In quegli occhi ho colto una gioia fantastica. Una gioia primordiale. Non c’era rassegnazione né rabbia. Da milioni di anni la natura combatte i propri limiti. Quell’uomo aveva imparato ad accettarli».