Robinson, 18 novembre 2018
La donna che cura le ninfee di Monet
Tra lo stagno e il prato dove Claude Monet soleva posare il cavalletto c’è un’enorme pantegana in gabbia. «Siamo costretti a mettere le trappole perché vengono di notte e mangiano tutte le radici delle ninfee». Il roditore soffia, digrigna i denti. È l’unico segno di agitazione nel parco silenzioso, ammantato di colori autunnali. Il giardino di Giverny si prepara al lungo sonno invernale. Da pochi giorni ha chiuso al pubblico per la pausa stagionale. «Comincia uno dei periodi di lavoro più intenso», racconta Claire-Hélène Marron. «Dobbiamo arare la terra, mettere il fertilizzante, togliere i vecchi bulbi, trasferire nelle serre le piante che soffrono di più il freddo, preparare talee per la prossima stagione». Prima di diventare la Giardiniera di Monet, così come appare nel film Le Ninfee di Monet, aveva scelto di lavorare in campo umanitario, andando in missione in Cambogia. La frustrazione per la burocrazia che regna anche nel mondo delle Ong le ha fatto cambiare rotta: si è trasferita nella valle della Senna, non lontano da Giverny, dove il suo compagno aveva preso una casa. Claire-Hélène aveva fatto uno stage nel giardino botanico di Londra e così ha inviato il suo curriculum alla fondazione Monet. È entrata dal cancello di servizio per un periodo di prova: non è mai più andata via.
Da sette anni cura quel miracolo di colori, acqua e luce che ogni primavera si rinnova intorno alla dimora del grande pittore impressionista. Un giardino che con spirito visionario Monet non solo ha creato dal nulla ma di cui si è occupato personalmente nei minimi dettagli. «Modellava la natura per costruire i suoi quadri», racconta Claire- Hélène. «I gerani rossi e rosa davanti alla casa sono quelli che scelse il pittore, così come i nasturzi arancioni sulla sinistra, le rose rampicanti, i tulipani che costeggiano il viale principale», racconta la giardiniera camminando nel parco dove gironzola solitario Nougat, il gatto bianco del custode.
«Quando è arrivato a Giverny, Monet ha voluto cambiare tutto», ricorda Claire- Hélène. Intorno a Le Pressoir, il nucleo originario della casa, chiamato così perché circondato da alberi di mele con cui si produceva il sidro, le aiuole erano state disposte secondo la geometria dei tipici giardini alla francese: troppo ordinati per l’artista impressionista. Pochi sanno che per Giverny si è ispirato ai suoi viaggi nella valle del Sasso e a Bordighera, dove aveva visitato il giardino botanico Moreno, dal nome dell’allora console di Francia. Come scrisse in una lettera alla moglie Alice, aveva scoperto nel Ponente ligure la bellezza di una” natura piantata”, domestica eppur selvaggia. Tornato nel suo clos normand, decide di togliere gli alberi da frutta, alcuni dei pini che filtrano luce, e crea nella parte ovest una serie di appezzamenti in cui sperimentare la coltivazione di specie poco usate all’epoca, come le peonie venute dall’Asia. Accanto al suo atelier, verso est, fa costruire delle serre dove far crescere orchidee.
Nel villaggio di Giverny la gente mormora su quell’artista matto che sradica alberi da frutta e si priva di un orto per mettere solo piante non commestibili. Quando poi Monet compra i terreni oltre la ferrovia che passa davanti al suo giardino, per far costruire degli stagni artificiali, scoppia una rivolta popolare.
I vicini non capiscono, temono che deviando l’affluente venga avvelenata l’acqua del paesino. Anche le famose ninfee che spuntano negli specchi d’acqua sono qualcosa di inedito. Fino ad allora non venivano coltivate e non ne esistevano di diversi colori. È stato un vivaio dell’Esposizione universale a fabbricare nuove specie ibride con fiori non più solo gialli, ma anche rosa e blu. Ogni mattina monsieur Lebret, il giardiniere di fiducia, deve alzarsi prima dell’artista per pulire lo specchio d’acqua, togliere la polvere che si è depositata, le alghe galleggianti e potare le ninfee che tendono a espandersi troppo. Solo un terzo dello stagno dev’essere ricoperto dalla vegetazione: Monet pretende un riflesso cristallino. Un rito che si ripete ancora oggi, a bordo di piccole barche di legno.
Per oltre mezzo secolo, dopo la morte di Monet nel 1926, Giverny cade in rovina: il parco si riempie di erbacce, lo stagno delle ninfee diventa un acquitrino nero. Solo all’inizio degli anni Ottanta, grazie alla coppia di mecenati Gérald e Florence Van der Kemp, torna all’antico splendore. Lettere, foto, vecchi ordini dal vivaio di fiducia: «Abbiamo studiato gli archivi per restare fedeli il più possibile allo spirito originale», spiega Claire- Hélène. Le difficoltà tecniche sono molte. Verso fine maggio i giardinieri – una squadra di dodici persone – devono ripiantare molte varietà stagionali per garantire la fioritura estiva, senza poter mai chiudere il parco ai visitatori che nel 2018 sono stati 650mila, un record.
Dai primi papaveri e tulipani ai girasoli, le dalie, gli iris, i gladioli. Tra marzo e ottobre Giverny è una tavolozza di colori che si rinnova continuamente. «È un giardino molto particolare», conclude la giardiniera. «Seguiamo i canoni assolutamente personali di Monet che, ancora oggi, sono all’avanguardia rispetto alle regole dei paesaggisti».