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Intervista a Thom Yorke su Suspira, Brexit e politici horror
Sta lì appollaiato ma non per modo di dire: proprio appollaiato. Le scarpe da ginnastica sono appoggiate a terra, sul lato sinistro della poltrona — fa sempre così, che io ricordi — e abbraccia le gambe piegate all’altezza delle ginocchia. Ma non appena oltrepasso la porta si alza, mi stringe la mano e mi fa segno di sedermi sul divano vicino alla poltrona. Thom Yorke, l’uomo- simbolo dei Radiohead, la band più cult degli ultimi vent’anni, indossa un cappellino bianco piuttosto pesante anche se a Londra non fa ancora davvero freddo. T-shirt nera con una scritta rossa, jeans, al polso un orologio e molti braccialetti di nessun valore. Il luogo in cui ci incontriamo, The Langham, è un hotel molto sobrio e molto tradizionale a due passi dalla Bbc, niente a che fare con quelli bizzarri e ultra hipster che stanno sorgendo nelle zone più alla moda della città dove trovi lussi ameni e improbabili, tipo la doccia in mezzo alla stanza. Arrivare alla sala dell’incontro è abbastanza complesso: bisogna scendere, passare davanti alla Spa e arrivare alla "nuova ala". Thom, che ormai da diversi anni è fidanzato con l’attrice palermitana Dajana Roncione, solido background teatrale e ruoli in serie tv e film — come La mafia uccide solo d’estate di Pif — è in ottima forma. Ha appena realizzato la colonna sonora — splendida — dell’attesissimo remake di Dario Argento, Suspiria, per la regia di Luca Guadagnino, che con Chiamami col tuo nome ha vinto un Oscar. In Italia arriva a gennaio e negli Usa, dove è uscito il 26 ottobre, ha già raccolto recensioni contrastanti: entusiasti The Atlantic e Vanity Fair, meno il New York Times e il New Yorker, che pure sottolineano la perfezione dei dettagli e lo stile.
Come è nata la collaborazione col regista italiano?
«Luca mi ha scritto una mail, una mail davvero molto gentile, e poi ci siamo incontrati a Torino dove io facevo un concerto. La mia compagna, Dajana, era amica di alcuni ragazzi che lavorano con lui. Mi sembrava interessante ma al momento mi ero limitato a un non impegnativo yeah, that sounds nice:bello. Poi però Luca mi ha parlato di quel pezzo centrale di danza intitolato Vault e questo ha catturato subito la mia attenzione. Mi ha mandato lo script, e quando l’ho letto ho cominciato a sentire qualcosa: è stata una sorta di lunga costruzione. Quando le riprese sono incominciate sono andato a vedere quel vecchio hotel dove giravano e ho avuto l’idea per la canzone Suspirium. A quel punto ho capito che ormai ero dentro».
Aveva già visto il film di Dario Argento?
«L’avrò visto e rivisto tre volte: fino a quando mi sono reso conto che non aveva niente a che fare con ciò che stavamo facendo. Il film di Luca partiva dalla stessa storia ma andava in un’altra direzione. Così io non ho nemmeno lontanamente cercato di fare qualcosa che si avvicinasse alle musiche dei Goblin che avevano un’intensità strettamente connessa al film di Argento».
Infatti la sua colonna sonora è un po’ come fosse l’opposto.
«Beh, sì, c’è una sensazione spaziale dentro che tocca diversi tasti. È estremamente melancolica ed estremamente dark: ma comunque spaventosa, spero, anche se in maniera diversa».
Ci sono riferimenti alla musica concreta. A Pierre Henry.
«Non avevo mai fatto prima una colonna sonora per cui ho iniziato ad ascoltare della non- musica o della musica generata in maniere non tradizionali usando lo studio come mezzo di manipolazione. Non volevo finire inscatolato in una sorta di "horror music" perché dal mio punto di vista la definizione sottostà a dei cliché. La musica più terrificante che io abbia mai sentito è quella di Penderecki o di Stockhausen. Oppure, appunto, proprio di Henry. Quel tipo di situazione per cui prendi qualcosa di carino come il canto degli uccelli e lo manipoli: lo manipoli fino al punto in cui diventa qualcosa per cui hai la sensazione che sì, è ancora il canto dell’uccellino, ma ti dà una sensazione strana. Oppure prendi la voce umana e la porti a essere irriconoscibile anche se, perfino in questo caso, sai che è ancora la voce umana. Ed è proprio questo che a me suona molto spaventoso».
C’è anche molta elettronica.
«Ci sono alcuni compositori di elettronica sperimentale molto interessanti che non vengono da quel mondo ma la usano: per esempio Ben Vida che ha fatto un paio di lavori che per me sono stati una vera ispirazione».
Elettronica, danza, horror: c’è un filo conduttore?
«Il rituale. È un concetto che ritorna nella performance art e credo sia molto importante anche nel mondo della danza di cui si parla nel film di Luca. Ma non mi piace parlare del suo Suspiria come di un film dell’orrore: si tratta di un’esplorazione psicologica di un gruppo di persone che esperisce un rituale cercando di beffare la morte. Ed è questa esplorazione ciò che ha fatto scattare in me l’identificazione».
Crede forse nelle streghe che compaiono nel film?
«Wow! (emette un lungo sospiro, ndr). Questa domanda è una di quelle porte che può risucchiarti chissà dove: perché, se rispondo, già lo so che finirò immediatamente nei guai. Ehmmm. No, non saprei. L’altro giorno un tipo mi ha chiesto: "Lei è così dentro questa cosa della stregoneria, vero?". E io: " No. Proprio per niente". Però... Però non tutto si spiega razionalmente. La musica non si spiega razionalmente. E certe cose vengono fuori in modo strano. Quando ho fatto la conferenza stampa per la presentazione del film a Venezia ho detto una cosa tipo: "La musica è un modo per fare degli incantesimi perché è anche così che cerchi di muovere delle cose". E mentre quelle parole stavano venendo fuori dalla mia bocca dentro di me pensavo: "Fuck, ma che cosa sto dicendo: mi uccideranno con questa storia!"».
L’idea della stregoneria è da sempre connessa col potere del femminile. Qui era perfino uno slogan del movimento femminista: "Tremate tremate le streghe son tornate". E in fondo anche il film di Guadagnino ha a che fare con la politica: come spesso accade al cinema horror metaforicamente o no.
«Sì. Ricordo che quando sono andato a visitare il set, all’inizio, Luca mi diceva: "Ci sarà così tanta energia femminile in questo film!". E io ero ossessionato dall’idea che la musica avesse il sapore del 1977 in termini di atmosfera».
Nella colonna c’è una canzone, intitolata “Has Ended”, che dice: “... Then the idiot was alone/ and the water it forgave us/ and the fascists felt ashamed/ at their dancing puppet king"... "Allora accadde che l’idiota restò solo / e l’acqua ci perdonò / e i fascisti si vergognarono / del loro re pupazzo-danzante”.
«Secondo lei di cosa parla?».
La domanda gliela stavo facendo io. Fa pensare a Donald Trump.
«Sì, è esattamente quello. Il film inizia con una citazione di Goebbels sul fatto che la danza deve essere bella: qualcosa del genere. E il personaggio interpretato da Tilda Swinton, Madame Blanc, dice "Voi non sapete cos’è la guerra". E poi si sente l’eco delle proteste nelle strade. Siamo in un periodo in cui la guerra era ancora fortemente presente nella mente delle persone e così la Guerra fredda. Ma c’era anche la voglia di una generazione di cambiare le cose: di essere libera e di non tornare indietro. C’era rabbia, una potente rabbia, in cui io mi identifico perché ho fatto in tempo a vedere la fine di quella cosa. Sono nato nel 1968, sono cresciuto con Margaret Thatcher e sono andato al college circondato da gente che credeva che le cose potessero essere cambiate. E sono profondamente scioccato dal fatto che adesso viviamo in un’età in cui non crediamo più in questo. Mi ricorda quel libro di Hans Fallada,Ognuno muore solo, dove due anziani coniugi mettono cartoline contro Hitler nei caseggiati. Mi chiedo se arriveremo a questo: a mettere cartoline senza più usare i fottuti social network — questo è sicuro».
Una lotta disperata.
«Quando ho scritto Has Ended avevo in mente rumori di soldati che tornavano a casa dalla guerra — o forse erano voci di una protesta. Finché ho avuto una visione di Donald Trump come... il gigantesco marshmallow man di Ghostbusters. Ecco dove siamo oggi: ed ecco perché bisogna cercare di mettere quelle cartoline in posti visibili: qualcosa succederà».
È spaventato di quello che sta succedendo adesso nella sua Inghilterra con la vicenda Brexit?
«Sono sceso in piazza l’altro sabato nella grande manifestazione contro. Temo di essere letteralmente terrorizzato. E del resto: non siete terrorizzati anche voi in Italia? O siete ancora tutti paralizzati?».
Abbiamo visto tempi migliori.
«Lo so: Dajana me lo racconta. Come va con le radio e le tv?».
Intanto se la stanno già prendendo con i giornalisti. E quindi anche con la libertà d’informazione.
«La gente ha cambiato modo di pensare per colpa di internet e dei social network. È fascismo: ma non nel vecchio senso. Non è nemmeno reale ma non per questo è meno pericoloso: il nuovo fascismo è questo, è la gente non si sente più responsabile per il proprio comportamento. Jaron Lanier (uno dei pionieri della realtà virtuale, oggi molto critico, ndr) dice che la rabbia della gente cresce perché attraverso un algoritmo finisce in un gioco di specchi dove le opinioni diventano sempre più estreme».
Che pericolo vede?
«Il pericolo non è uno stupido governo conservatore che finirà per divorare sé stesso. Per ritornare a Suspiria e alla metafora della danza: noi siamo come la danzatrice che sotto un incantesimo che non capisce si butta di qua e di là — fino a uccidere sé stessa. Quella danzatrice siamo noi che non abbiamo più fede nella nostra capacità di cambiare le cose: perché stiamo vivendo in una specie di vuoto».
Stiamo perdendo complessità?
«Scrivere due frasi su Twitter non significa che stai facendo una discussione. E scrivere la tua opinione con la bava alla bocca su Facebook non significa che stai partecipando a un dibattito politico. Non c’è differenza tra quello e il tracciare tremebondi graffiti nella toilette».
Ci regali qualche elemento di consolazione: sta lavorando a qualcosa di nuovo con i Radiohead?
«Per la verità no. Per ora stiamo tutti lavorando su progetti differenti: e va bene così. Io sto cercando di finire il lavoro che sto portando avanti con Nigel ( Godrich, uno dei migliori produttori sul mercato, assiduo collaboratore dei Radiohead, ndr). Una sorta di show elettronico dal vivo, se una roba del genere può mai esistere, con il nostro amico Tarik Barri, il berlinese, che ha realizzato questo software che trasforma la musica in immagini, e io che mixo e modifico in diretta voce e tastiere. Ma siamo appena agli inizi. Abbiamo provato a portare qualcosa del genere anche in Italia ma siamo finiti in uno di questi vecchi teatri dove la gente era costretta a restare inchiodata sulle poltrone mentre noi la invitavamo ad alzarsi e ballare. Che delirio. Ecco: a proposito di terrore. Quella serata per me è stata una sorta di incubo. Ma credetemi: un incubo vero».