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 2018  novembre 18 Domenica calendario

«Io, torturato per 14 mesi dai Beatles dell’Isis»

Più che ostaggi erano cavie, su cui sperimentare il disegno di terrore. Nel 2013 quando ancora il mondo non si era reso conto della minaccia, un pugno di occidentali prigionieri è servito per addestrare la squadra più letale dell’Isis, destinata a condurre l’offensiva contro il cuore dell’Europa. I verbali di Federico Motka, uscito dalle carceri jihadiste il 26 maggio 2014 dopo quattordici mesi d’incubo, oggi sono stati riletti dagli inquirenti italiani incrociando i dati di tutte le polizie internazionali, per fornire un ritratto unico della supercellula che ha progettato gli attacchi contro Parigi e Bruxelles, formata da miliziani nati in Francia e in Inghilterra.
I racconti di Motka, un cooperante di 30 anni, sono un diario dell’orrore. «Botte e bastonate finché non svenivi. Questo i tre inglesi. I francesi per farci capire chi comandava ci portavano otto olive o quattro datteri a testa per un pasto, oppure ci lasciavano digiuni». Ancora prima del suo rilascio, il più spietato dei carcerieri mette a segno l’esordio di sangue: Mehdi Nemmouche, nome di battaglia Abu Omar, uccide quattro persone al museo ebraico nel centro di Bruxelles. È il primo attacco dell’Isis. Nemmouche ha la cittadinanza francese: in Siria tortura gli ostaggi occidentali cantando le sigle dei cartoni animati e “Douce France” di Charles Trenet. Urla ai prigionieri: «Guarda il tuo amico, è morto! E tu, ti decapiterò e metterò la testa sul tuo culo». Negli stessi giorni conversa con Abdelhamid Abaaoud, la mente degli attentati di Parigi del 2015, e si informa su come ottenere un passaporto falso. Lui e gli altri dell’élite jihadista mentre gestiscono la reclusione di 38 ostaggi occidentali preparano il grande assalto.
I più famosi tra l’avanguardia dell’Isis sono i quattro ribattezzati “Beatles” per lo spiccato accento britannico. Il leader è “George” al secolo Mohammed Emwazi, autore dei proclami indirizzati ai governi occidentali e capo boia delle decapitazioni. Nato in Kuwait in una famiglia benestante, a Londra frequenta scuole prestigiose e si laurea in informatica. Ama la boxe e mostra con fierezza la sua pistola speciale. È lui a tradurre in inglese le domande ai prigionieri dello Sceicco.
Insieme a “George” ci sono altri due londinesi: “John” alias Davis Aine Lesley che prima di trasferirsi in Siria ha soggiornato una settimana a Milano e Alexanda Amon Kotey, “Ringo” appassionato di wrestiling. E verso Natale arriva anche “Paul”, il sudanese El Shafee Elsheikh studente di ingegneria meccanica che usa il waterboarding sugli ostaggi, proprio come avevano fatto gli agenti della Cia con i detenuti musulmani.
Motka descrive una quotidianità di sofferenza, con armi premute contro la fronte, coltelli alla gola ed esecuzioni simulate. «Uno usava il teaser e l’altro con il bastone percuoteva la pianta dei nostri piedi» racconta. Sempre chiusi in stanze minuscole dietro a porte di acciaio con una piccola finestrella, sempre ammanettati. Un giorno Motka capisce che nella cella accanto ci sono i giornalisti James Foley e John Cantlie: «All’inizio non sapevamo chi fossero. Un giorno volevano che facessimo un boxing match tra di noi per il loro divertimento».
Nell’estate 2013 vengono tutti trasferiti nell’ospedale pediatrico di Aleppo trasformato nella centrale dell’attacco all’Occidente e la gestione passa a un gruppo di miliziani francofoni. Lì si tortura e si pianifica. Infatti lì opera il belga di origini marocchine Najim Laachraoui, che tre anni dopo si è fatto saltare in aria all’aeroporto di Bruxelles, indicato anche come l’artificiere degli attentati di Parigi. Lì c’è il francese Salim Benghalem, legato agli attentatori di Charlie Hebdo e dell’Hyper Cacher del gennaio 2015. E infine il belga Alilou Soufiane, che in quel periodo fa la spola tra l’Europa e Siria per ben quattro volte.
In questa prigione comune Federico Motka incontra quattro giornalisti francesi. Uno di loro, Nicolas Hénin, gli racconta di essere rimasto colpito da una notizia terribile che riguarda una persona che ha conosciuto: Padre Paolo Dall’Oglio. I carcerieri gli hanno detto che è stato ucciso a Raqqa, poco distante da dove l’hanno catturato. Una circostanza finora non riscontrata.I reclusi vengono spostati più volte nella zona di Raqqa, sulle rive dell’Eufrate, quindi in un impianto petrolifero. Nella primavera 2014 i carcerieri selezionano i detenuti. Da una parte gli europei continentali, da cui si vuole ricavare un riscatto: le richieste sono di due milioni a persona, la liberazione avviene in fretta. L’unico russo, Sergej Gorbunov, viene ritenuto “inutile” e gli sparano: il video dell’esecuzione viene mostrato agli altri. Quattro americani e tre britannici invece restano nelle celle, come monito ai loro Paesi.
Ad agosto lo statunitense Foley viene decapitato con indosso la tuta arancione dei reclusi di Guantanamo. Degli aguzzini solo “George” è stato ucciso, colpito a morte da un drone americano. “John” è in un penitenziario turco, Soufiane e Nemmouche sono rinchiusi in carcere in Belgio. “Ringo” e “Paul” restano nelle mani delle forze curde: nessun governo europeo finora ne ha chiesto la consegna. Invece Benghalem e Laachraoui potrebbero trovarsi ancora liberi in Siria, pronti a nuove azioni. E la ricostruzione degli inquirenti italiani sottolinea la capacità di rigenerarsi dell’Isis, una minaccia che già ai tempi della prigionia di Federico Motka è stata sottovalutata, proprio mentre stava preparandosi a lanciare la guerra nel cuore delle capitali europee.