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 2018  novembre 18 Domenica calendario

Reportage dal confine Messico-Usa

Il manifesto di un Nuovo Mondo e di un nuovo secolo, la frontiera tra la ferocia sovranista e la forza disarmata degli ultimi tra gli ultimi, è nel lembo di terra arsa e corrugata che, a Nord Ovest, sulla costa Pacifica, separa il Messico dagli Stati Uniti. In fondo alla calle Michoacan, un sudicio pertugio che odora di piscio, fagioli rossi stufati e polvere, nel quartiere La Coahuila, lì dove i primi 2.397 degli 8mila honduregni della Carovana della Vita partita il 13 ottobre da San Pedro Sula, Honduras, hanno finito la loro corsa di 4.500 chilometri attraverso il continente sudamericano.

"Benito Juarez", così si chiama il centro sportivo polivalente trasformato dalla Municipalità e dal Governo della Baja California in campo profughi. E suona come un epitaffio questo nome che celebra il primo indio nella storia del continente a diventare presidente del Messico a metà Ottocento. Ricordo e promessa di un riscatto che il Nuovo Tempo non contempla. Almeno per loro. Hanno il volto, lo sguardo, l’anagrafe, di ragazze e ragazzi che hanno avuto la sola colpa di nascere in un angolo "sbagliato" di mondo. Ciondolano sfiniti tra tappeti di vecchi materassi, gomitoli di stracci e povere cianfrusaglie. Chi è arrivato prima, è protetto da un tetto delle strutture a un piano del centro sportivo. Gli altri, sono al riparo di tende e teli dell’immondizia, che coprono giacigli di coperte infeltrite e che fanno da corona alle tribune e alla spianata in terra battuta di quello che era un campo da calcio. Sono l’avanguardia di una generazione derubata del futuro prima ancora di poterlo solo immaginare e che non arriva a trent’anni. Che ha lasciato dietro di sé figli, genitori, vecchi. Che si è messa in marcia lungo un sentiero che punta a Nord, verso san Diego, la California, e che non contempla il ritorno. In nessun caso.
Qualunque debba essere il prezzo da pagare per attraversare il filo spinato e le linee di 8mila uomini in armi — esercito, Guardia Nazionale, polizia di frontiera — in cui l’America di Donald Trump ha deciso, una settimana prima delle elezioni di mid-term, di sigillare se stessa.


"Loro non passeranno. Noi non possiamo resistere"
Superati i pick-up blu notte della polizia federale e il cordone della polizia municipale, oltre un’inferriata azzurra e un tornello, nella confusione di volontari segnalati da badge numerati e da mascherine che dovrebbero proteggere la salute degli operatori, ma in fondo servono intanto a rendere più tollerabile il lezzo che proviene dalle latrine in muratura e dai 18 bagni chimici, la catastrofe umanitaria del campo si manifesta per quella che è. E che non è tanto o soltanto nei numeri che crescono di ora in ora con l’arrivo di nuovi bus, carrette rugginose, auto private usate come mezzi di fortuna — 1.200 i migranti registrati giovedì, 1.500 venerdì, 2.397 ieri, sabato — e che stanno avvicinano la struttura al punto di massima capienza. Ma è nella universalità della condizione rassegnata, attonita, dell’attesa.
Che è in un pallone da basket sgonfio tirato contro il tabellone di un canestro arrugginito. Nella fila di fronte alle cucine con una ciotola di plastica in mano da riempire con una tortilla e un cucchiaio di fagioli e riso addensato. Nel sonno letargico sotto il sole ancora molto caldo del pomeriggio. In un castello di tubi e in due scivoli dove un gruppo di bambini gioca con quel poco che ha spingendo l’angoscia più in là. E che rende il "Benito Juarez" e la sua umanità, apparentemente identico ad altri dieci, cento, mille campi profughi. Di quelli che abbiamo imparato a conoscere a ogni latitudine, lungo i confini delle guerre agite e non solo simulate o minacciate. In Medio Oriente, in Africa, in Europa, nella nostra Italia. E che proprio per questo ci sono diventati colpevolmente indistinti, fino all’indifferenza.
Manuel Figueroa, responsabile del Campo per la Municipalità, è un uomo di mezza età dalla faccia solare. Allarga le braccia e quando apprende che l’interlocutore è italiano lo associa con una smorfia al nostro nuovo biglietto da visita, «Italia… Salvini, eh?». E non per ferocia.
Perché Tijuana e il suo milione e 600mila anime non lo sono. Non lo sono mai state. Perché gli ultimi sanno riconoscersi tra loro. E non dimenticano. Come è già accaduto, del resto. Ancora nel 2016, quando 4.500 haitiani provenienti dal Brasile, seppero solo una volta arrivati alla frontiera che Donald Trump aveva riscritto le regole dell’asilo. E che quella frontiera non la avrebbero oltrepassata mai. Sono rimasti tutti qui.
Lavorano come facchini in aeroporto, nel locale indotto manufatturiero in costante ricerca di domanda di manodopera a basso costo. E oggi, qualcuno di loro, nell’ascensore sociale della disperazione, ha guadagnato il ruolo di coordinatore della nuova emergenza. Perché c’è sempre qualcuno che si mette in fondo alla fila dietro di te. Distribuiscono acqua, registrano i nuovi arrivati, stringendogli il polso destro in fascette arancioni di tessuto che danno diritto all’ingresso nel campo. Ad almeno un pasto e una doccia al giorno.
Luis Bustamante, funzionario del governo della Baja California, indica il taccuino.
«Scriva che Tijuana e il suo governo stanno facendo da sole. Che il governo federale ci ha lasciati soli. Abbiamo recuperato 100 milioni di pesos (4 milioni e 300mila euro) dal nostro bilancio per coprire l’emergenza di qui ai prossimi cinque mesi. Ma è una somma tarata su 2mila migranti. Se ne dovessero arrivare 8 mila, come dicono a Città del Messico, o anche solo 5mila, qui non potranno stare».
La soluzione indicata dal ministro dell’Interno federale, Alfonso Navarrete, è di concedere immediatamente 2.600 permessi di soggiorno avviando una parte almeno dei migranti ai centri di impiego del Paese. Ma i numeri comunque non tornano e a Tijuana, al "Benito Juarez", è arrivato in visita l’ambasciatore dell’Honduras, Alden Rivera Montes, per discutere di eventuali rimpatri. Perché una cosa tutti sanno. Tutti meno loro che attendono, dice abbassando la voce Bustamante perché chi è intorno nel campo non senta.
Non fosse altro perché il servizio immigrazione americano non evade che tra le trenta e le quaranta richieste di asilo al giorno, con percentuali di accoglimento che non arrivano al dieci per cento. E, a questo ritmo, gli 8mila della Carovana sono destinati a restare qui fino alla primavera del prossimo anno.


I carovanieri
A Jackson Bigil, 22 anni da Santa Bárbara, e Miriam Abila, 21 da Danlì, dipartimento di El Paraiso, non fa differenza sapere o no che al passaggio di frontiera pedonale di El Chaparral, a Nord della città, le domande inevase di asilo sono già 1.400. Che il materassino su cui se ne stanno a gambe incrociate nel campo potrebbe essere la loro casa per i prossimi sei mesi. Loro in Honduras non torneranno. «Nunca», mai, dicono. Jackson ha lasciatodietro di sé un figlio di un anno e una moglie bambina. Forse li rivedrà. O forse no. «Che differenza fa se non so come dargli da mangiare?». Miriam di figli ne ha già avuti due, di quattro e due anni, e come Jackson li ha lasciati a casa con la nonna. «Li crescerà lei. Io con due dollari al giorno che guadagnavo lavorando al mercato non posso dare un futuro a nessuno. Un giorno capiranno perché sono andata via e magari mi perdoneranno». Si sono conosciuti sulla Carovana. Hanno marciato insieme a piedi per chilometri. Si sono alternati nel mendicare. «I messicani ci hanno aiutato — dice Jackson — Chi dandoci da mangiare. Chi tirandoci a bordo su un camion o una macchina. Ora vediamo cosa ci diranno gli americani. Noi non ci muoviamo da qui». Sotto i piloni del bypass autostradale della Interstate 5 per San Diego, i trafficanti di uomini chiedono almeno 10mila dollari americani per il "passaggio". Anticipati e senza garanzia. Ma in tutto il "Benito Juarez" non ce ne è uno che riesca anche solo a immaginarla quella cifra. Non hanno campato abbastanza per pensare anche solo di metterli insieme.
Alex, 38 anni da San Pedro Sula, dove la Carovana si è formata ed è partita, ha accanto sua moglie Adriana, di 27, e suo figlio Franklin, di nove. Faceva l’imbianchino a giornata, quando c’era lavoro. Mentre alla madre di suo figlio le gang avevano offerto due possibilità, le sole per le quali a San Pedro Sula la domanda supera sempre l’offerta: la puttana o la spacciatrice. Adriana abbassa lo sguardo e annuisce. E spiega che, in quell’ultima umiliazione lei e Alex, la notte prima che la marcia cominciasse, hanno capito che era la loro unica speranza. Da una bisaccia tira fuori delle carte bisunte e stropicciate. Sono le denunce di minaccia e violenza che ha presentato alla polizia honduregna. «Con queste non potranno non riconoscermi l’asilo, vero?», chiede in cerca di una conferma che nessuno può darle. Nemmeno il suo compagno, che ora accarezza la testa del figlio. E che, piuttosto, spera di non farcela lui, se questo può aiutare a far passare loro. «Sono pieno di tatuaggi — dice, mostrando gli avambracci — E so che chi ne ha tanti così, gli americani non lo lasciano entrare, perché è segno di appartenenza alle gang. Io le odio, le gang. Ma se decideranno così, vorrà dire che ci separeremo. Che almeno loro saranno felici dall’altra parte. E magari un giorno ci ritroveremo in Canada». La terra oltre la terra promessa. Di cui fantastica anche José Lazaro, 20 anni da Villanueva, dipartimento di Cortés. Senza sapere neppure esattamente dove sia. Ha perso il padre. Ha salutato i due fratelli, la sorella e la madre un mese fa. È semianalfabeta. «Ma so coltivare la terra — dice con un sorriso — E mi hanno detto che in America i bravi contadini servono».
In fondo al campo, amplificata da un microfono collegato a una cassa malmessa, la voce di una ragazza honduregna di trent’anni, fasciata in una maglietta da calcio della nazionale messicana per il bicentenario, attira una piccola folla. Si è truccata come per una festa. Sorride accennando movenze leggere del corpo. Canta le note di una canzone che tutti sembrano riconoscere. Amore eterno, recita il ritornello.
(1 — continua)