Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  novembre 18 Domenica calendario

Minniti si candida per la guida del Pd. Intervista

«Ho deciso di mettermi in campo perchè considero la mia una candidatura di servizio. Di una persona che ha ricevuto tanto dal suo partito, dalla sinistra e che sente ora di dover restituire qualcosa». La corsa alla segreteria del Pd è partita. Da oggi è iscritto alla competizione anche Marco Minniti. L’ex ministro si sente chiamato in causa dall’appello che gli hanno rivolto oltre 500 sindaci del centrosinistra. Ma soprattutto si sente in obbligo di provare a evitare «l’estinzione del Partito Democratico», perchè è questo il vero pericolo che «stiamo correndo noi e la democrazia italiana». E avverte: «Io non sono lo sfidante renziano. In campo c’è solo Marco Minniti».

Onorevole, dopo la disfatta del 4 marzo, si è aperto un tema che non riguarda solo il suo partito. Il problema è capire se ci sia ancora spazio per la sinistra in questo Paese.
«So bene che le scorse elezioni sono state più di una sconfitta. C’è stata una rottura sentimentale con i nostri elettori. Questa è la sfida del Congresso. Io non cerco scorciatoie».
Cosa intende per scorciatoie?
«Tornare semplicemente al governo. La sconfitta del nazionalpopulismo è possibile solo si riesce a parlare con la società italiana. Va ricostruita una connessione. Serve un Congresso che parli all’Italia, non un regolamento dei conti interni».
In effetti in questi mesi il Pd è sembrato assente.
«Ripiegato su se stesso. Anzi, c’è stato un stacco netto tra la crescente preoccupazione per quel che sta avvendo nel Paese e l’ordinaria amministrazione con cui il mio partito ha affrontato quella preoccupazione. Ci siamo schizofrenicamente guardati l’ombelico».
Però lei negli anni che hanno preceduto le elezioni faceva parte del gruppo dirigente democratico. E’ stato ministro e prima ancora sottosegretario.
«In questi anni mi sono occupato di due grandi questioni: la sicurezza nazionale e il ministero dell’Interno. Abbiamo garantito sicurezza dinanzi al terrorismo internazionale. E poi ci siamo cimentati con il governo dei flussi migratori coniugando umanità e sicurezza».
D’accordo, ma il giudizio degli elettori è stato inequivocabile.
«Forse ha riguardato anche il mio operato e ne sento il peso. Ma il Pd non può nemmeno cancellare le politiche riformiste della scorsa legislatura».
La sua candidatura è già stata definita renziana.
«Parliamo di 550 sindaci che hanno firmato un appello.
Rappresento questa parte del partito e non un equilibrio correntizio. Se non ci fosse stata questa richiesta da parte di tanti eletti, non mi sarei reso disponibile. E poi rivendico con una certa fermezza una storia personale, fatta al servizio delle istituzioni. Si sta candidando Marco Minniti. Punto».
Però dovrà decidere che rapporto avere con Renzi. L’ex segretario una resposabilità ce l’ha avuta nella più grande sconfitta nella storia della sinistra.
«Essendo stato tra chi non ha esagerato nel lodarlo quando era al potere, non ho alcun bisogno di prenderne le distanze. Renzi ha perso e si è giustamente dimesso assumendosi responsabilità che vanno anche oltre le sue. Il tema ora non è più questo, ma come salvaguadare il progetto riformista. Connettere il riformismo al popolo».
Come? In questi anni semplicemente siete apparsi non più di sinistra.
«Non abbiamo risposto a due grandi sentimenti: la rabbia e la paura. Non si può rispondere a chi ha perso il lavoro con la freddezza delle statistiche. Dicendogli che l’occupazione cresce. Così come non si può dire al cittadino che ha subito un furto in casa, che i reati diminuiscono».
Alla luce di quel che ha avvenuto lei direbbe quindi che c’è bisogno di più sinistra?
«C’è bisogno della sinistra riformista. I più deboli si sono sentiti abbandonati. Anzi, addirittura biasimati. Quello spazio è stato colmato dai nazionalpopulisti. Basta vedere quel che è accaduto nelle nostre periferie».
Cioè siete stati elitari?
«Forse aristocratici. Non possiamo più esserlo. Anche perchè mai come in questa fase il Pd è l’unico argine democratico a questa maggioranza nazionalpopulista».
E come si costruisce concretamente questo argine?
«Su otto parole chiave: sicurezza e libertà, sicurezza e umanità, interesse nazionale e Europa, crescita e tutele sociali.
I nazionalpopulisti contrappongono queste parole e impongono una scelta, noi dobbiamo conciliarle. Dobbiamo farlo sapendo che senza l’Ue - che va cambiata profondamente - non si affrontano le questioni poste dalla globalizzazione. Una grande Italia in una grande Europa ».
Ma il Pd è in grado di farlo?
«Non da solo. Serve una grande alleanza democratica. Va rimesso in campo un partito forte ma consapevole dei suoi limiti».
Alleanza con chi?
«Un campo ampio. Con pezzi di società, con queste azioni di cittadinanza che abbiamo visto a nascere a Roma e a Torino».
L’M5S può essere un alleato?
«Questo discorso può essere fatto solo dopo che questa maggioranza nazionalpopulista verrà sconfitta nel Paese. I grillini stanno vivendo un eclisse. Questo governo sembra il pentapartito: litigano e poi si mettono d’accordo sul potere».
Insomma se c’è la crisi di governo si deve votare?
«Senza dubbio. Qualsiasi altra soluzione, un’intesa tra Pd e M5S in questo Parlamento sarebbe una manovra tra due sconfitti».
Pensa che sia utile cambiare nome al partito?
«Lo dico da esperto avendo partecipato a tutti i cambi di nome dal Pci in poi. Non serve. Semmai dobbiamo unirlo, ricostruirlo e cambiarlo profondamente. Ora sembriamo una confederazione di correnti. E una confederazione di correnti non può vincere».
Il Pd in questi mesi è addirittura sembrato sull’orlo dell’estinzione.
«Senza dubbio è stata messa in discussione la sua prospettiva. Se la situazione non fosse stata senza precedenti, non avrei mai pensato ad una mia candidatura. Il futuro del Pd, inoltre. è connesso a quello della democrazia italiana».
Il suo principale concorrente è Nicola Zingaretti. Cosa la distingue da lui?
«Intanto non è un avversario. Io peso a un ricamo unitario che valorizzi le differenze politiche. Per questo proporrò a tutti i candidati un codice di comportamento per far capire che non c’è una gestione contrapposta. Non dirò mai una parola contro di loro. Nel codice vorrei scrivere che chiunque vinca, avrà la collaborazione degli altri».
Non pensa che il Pd abbia bisogno anche di una nuova classe dirigente?
«Quando stavo nel Pci, un leader di allora mi diceva: i capi scelgono come successore uno più coglione di loro e la chiamano continuità. Poi a volte si sbagliano e scelgono uno più intelligente e allora lo chiamano rinnovamento. Ecco, io voglio il rinnovamento».