Corriere della Sera, 18 novembre 2018
Intervista a Mario Segni
Professor Mario Segni, ci svela perché nella storia dell’Italia repubblicana così tanti personaggi politici di spicco sono sardi?
«Il mistero è ancora più fitto. Non sardi: sassaresi. Anzi: non sassaresi, della parrocchia di San Giuseppe. Nel raggio di trecento metri sono nati due presidenti della Repubblica, mio padre Antonio e Francesco Cossiga, il capo più amato dei comunisti italiani, Enrico Berlinguer, e suo cugino, Luigi, ministro della Pubblica istruzione, Arturo Parisi e altri meno in vista. Hanno studiato tutti al liceo Azuni, lo stesso frequentato da Palmiro Togliatti, noto a Sassari per non aver mai preso meno di dieci in un compito in classe».
Mi sta dicendo che c’era una lobby capitanata dal parroco di «San Giuseppe»?
«Dico solo che la Sardegna c’entra poco. Però il parroco fu sempre lo stesso, monsignor Giovanni Masia, rimasto a presidiare la posizione fin oltre i novant’anni. Era un cattolico d’assalto, carattere non facile, per cui non piaceva a tutti. Mio padre gli era affezionato e a Messa si metteva sempre dietro l’altare. Cossiga abitava a 20 metri dalla parrocchia, da piccolo era il pupillo del prete. Anche i Berlinguer gli erano legati. In quel raggio di 300 metri abitava la buona borghesia cittadina, benestante, ma non ricca. Fare impresa in Sardegna era difficile, quindi le migliori menti si dedicavano alle professioni. Dopo veniva la politica. E Sassari faceva la differenza, perché i sassaresi votavano per i sassaresi. La terra contava più del colore politico. Quando mio padre venne candidato alla presidenza della Repubblica, Mario Berlinguer, papà di Enrico, deputato socialista prima del fascismo e aventiniano, fece una campagna sfegatata per il suo concittadino. Se non fosse stato un eroe della sinistra italiana lo avrebbero cacciato».
Già che siamo sul filone dei misteri, restiamoci, perché la sua vita è una teoria di eventi non del tutto chiariti, a partire dall’accusa a suo padre di aver pianificato un golpe con l’allora comandante dell’Arma dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo, fino a Tangentopoli, quando lei sembrava il padrone della nuova Italia e, alla fine, Berlusconi si mangiò tutto. Dissero: «Segni ha vinto alla lotteria e ha perso il biglietto».
«Partiamo dalla cosa più importante: i referendum elettorali. Una vittoria straordinaria, altro che biglietto perso. Liquidammo un sistema moribondo, instabile, inefficiente. Per quindici anni, con governi scelti direttamente dai cittadini e l’alternanza tra Berlusconi e Prodi, l’Italia andò bene. Certo, mi attirai l’odio di tanti. Qualche anno prima Craxi mi aveva detto: “Che fretta hai? Lasciami consolidare la supremazia del Psi sul Pci, poi vai avanti con la tua idea della repubblica presidenziale”. Ma i comunisti tornarono a salire, i socialisti a scendere e Pannella fondò la Lega per l’uninominale. Mandai una lettera a Craxi in cui proponevo l’elezione diretta dei sindaci, la prima delle riforme. La lesse in direzione e qualcuno mi sostenne. Matti, siete matti, disse lui, così i sindaci andranno tutti ai comunisti. E si impegnò grevemente contro il referendum, chiedendo agli italiani di andare al mare, aiutandoci così a vincere».
E la Dc?
«Andreotti, perfido, disse che il referendum costava trecento miliardi ai poveri contribuenti italiani. Gli telefonai, minacciando di citare Mussolini. Nel ‘24 aveva sentenziato: le elezioni costano troppo, quindi da questo momento non si terranno più. “Se me lo chiedi tu – rispose amabilmente —, non ne parlerò più”».
E i vescovi?
«Il cardinale Camillo Ruini s’infuriò. Gli chiesi un incontro e all’inizio me lo negò. Poi mi ricevette accusandomi di mettere in pericolo la Dc. Cercai di dimostrargli che i partiti erano al lumicino e che anche la Dc era corrotta. Il sistema delle tessere selezionava alla rovescia, premiando i peggiori. L’unica differenza con il Psi era che noi peccavamo mantenendo il senso del peccato, loro nemmeno quello. Bella consolazione».
Perché litigò con Pannella?
«Non potevamo rischiare di trovarci Cicciolina alle riunioni in cui cercavo di convincere quelli dell’Azione cattolica! Allora i radicali non erano borghesi come adesso. Mi invitavano ai loro congressi e da un lato c’erano i punk, dall’altro gli arancioni, in fondo quelli che si sparavano la droga... Insomma, va bene mettere insieme il diavolo con l’acqua santa, ma più di tanto...».
La salvò Occhetto e l’odio della sinistra per Craxi. Vinceste il referendum, però non seppe sfruttare l’occasione. Dove sbagliò?
«Qui arrivò la sconfitta. Non cerco giustificazioni, ma il mio passato rendeva più difficile muoversi. Occhetto proponeva l’alleanza ma, con la mia storia, potevo essere il capo dei comunisti? Dall’altro lato, come mio padre, ero anticomunista, ma allo stesso modo antifascista: potevo accordarmi con Fini quando non aveva ancora rinnegato le sue origini? Berlusconi mi incontrò un paio di volte e fece circolare la voce che avevo rifiutato di guidare il nuovo partito. Quando mai? Compresi fin dal primo momento che pensava solo a se stesso».
Torniamo a suo padre. Come divenne presidente della Repubblica?
«Facevo lunghe camminate con lui e mi raccontava degli scontri durissimi con Amintore Fanfani, la sua “bestia nera”. Fanfani era come Matteo Renzi, attaccava tutto e tutti. Papà mi portò allo scontro più sanguinoso a cui abbia mai assistito: il congresso della Dc di Firenze del ’59. Alle 4 di notte bussarono alla porta. Erano Emilio Colombo e Mariano Rumor: “Abbiamo perso, non ci eravamo accorti che Fanfani ha stretto un accordo con la sinistra interna”. Alle 6 papà cercò di convincere Scelba a un accordo. Rifiutò. Alle 8 contattò Andreotti che convocò i suoi: “Siamo chiamati a un grande sacrificio; senza chiedere niente dobbiamo votare Segni per evitare che il partito finisca nelle mani della sinistra”. Applaudirono e Andreotti se ne andò. Poi, mi raccontò Evangelisti, scoppiò il caos: “Fra’, e a noi che ce tocca?”. Comunque, il blitz riuscì e Moro andò alla segreteria. Ma il rapporto si ruppe anche con lui quando decise di accelerare i tempi dell’ingresso socialista nel governo. Per garantirsi presso gli industriali, gli agrari e la Banca d’Italia, Moro decise di candidare mio padre alla presidenza della Repubblica».
Curiosi rovesciamenti di campo...
«Spesso i presidenti della Repubblica sono eletti per quelli che sono ritenuti i loro difetti, non per i loro pregi. In quel caso c’era una logica: bisognava riequilibrare l’apertura a sinistra. Fanfani e i franchi tiratori però erano in agguato e, alla sesta votazione, mio padre ottenne qualche voto in meno. Scoraggiato, Moro si presentò a casa nostra, in Via Sallustiana, chiedendo a mio padre di ritirarsi. Lui fece una delle sue sfuriate. Il giorno dopo, uscii di casa per fare una passeggiata: sentivo troppo la tensione. Davanti a un bar vidi la gente incollata alla televisione che applaudiva. Il barista mi riconobbe: “Hanno eletto suo padre”. Poco prima, dalla segreteria avevano mandato il giovane Arnaldo Forlani da papà con un rametto d’ulivo. Il Quirinale si dimostrò subito un posto orribile per viverci, mezzo museo e mezza caserma. Non era un ambiente confortevole e mio padre ne risentì molto. Inoltre, era un uomo d’azione, inadatto a fare l’arbitro. Io mi ero laureato e trasferito a Padova, dove facevo l’assistente universitario. Così, appena poteva, papà scappava a Sassari. Poi, il tragico epilogo, nell’estate del 1964. Mentre stavo andando in montagna, ci avvisarono che aveva avuto un ictus. A dicembre si dimise. Visse ancora fino al ’72, lucidissimo ma leso per metà del suo corpo e incapace di parlare».
Tre anni dopo, l’accusa infamante da parte del settimanale «L’Espresso». Se ne accorse?
«Certo. Riusciva a leggere. Per alcune settimane lo ricordo disperato, perché non poteva difendersi. Dissero che aveva complottato con De Lorenzo e predisposto un piano per il golpe, il cosiddetto “Piano Solo”. In realtà fu una montatura giornalistica. Saragat, presidente della Repubblica, respinse “con disgusto questa vergognosa speculazione”. Nenni scrisse nel diario: “Se dovesse dimettersi, come i medici lasciano intendere, sarebbe un guaio”».
Perché ancora oggi in Rete e in molti testi giornalistici si continua a parlare di golpe?
«Il successo della tesi golpista si deve alla forza mediatica e culturale del Pci, alla sua capacità di mistificare la storia e coprire la verità. Il ’64 fu un tassello importante del racconto di una Dc golpista, pezzo forte della propaganda comunista. Erano i tempi del Muro di Berlino, dei missili a Cuba e mio padre si preoccupava per l’ordine pubblico, anche perché il primo anno del centro-sinistra aveva creato tensioni. Convocò, ufficialmente, De Lorenzo, per sapere da lui qual era la situazione nel Paese. De Lorenzo non fece altro che aggiornare i piani, come avveniva periodicamente, nel caso vi fossero stati eventi che avrebbero potuto mettere in pericolo l’integrità della Repubblica. La riprova che non vi furono tentativi di golpe è dimostrata dalla nomina, due anni dopo, di De Lorenzo a capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Saragat, Moro e Nenni avrebbero promosso l’uomo che tramò contro di loro?».
Scommetto che oggi non sarebbe più tanto convinto nel proporre una repubblica presidenziale in Italia. Sbaglio?
«Perché no? Non è meglio una guida unica a questa carrozza impazzita con due cavalli che tirano in direzioni opposte? Forse verrebbe eletto Matteo Salvini e si comincerebbe seriamente a costruire un’alternativa per le elezioni successive».