La Stampa, 18 novembre 2018
Svelato il dna del tartufo bianco
«Utopia dei sensi, il tartufo bianco è essenzialmente profumo, e solo dopo anche gusto»: così poetò lo chef Carlo Cracco. Ma andando oltre le sensazioni, c’è chi il tartufo bianco lo ha analizzato sin nella più piccola molecola.
La prestigiosa rivista scientifica Nature Ecology & Evolution ha pubblicato i risultati di una ricerca durata sei anni, condotta da un team internazionale dell’Institut national de la recherche agronomique (Inra), coordinato da Francis Martin e Claude Murat di cui fanno parte anche ricercatori italiani del Cnr di Torino e Perugia, delle Università di Torino, Bologna, L’Aquila e Parma, con il contributo di Regione Piemonte. I ricercatori hanno sequenziato i genomi di pregiate specie di tartufo tra cui il tartufo bianco piemontese.
«In sostanza – spiega Paola Bonfante, docente di Biologia all’Università di Torino – abbiamo per la prima volta letto la sequenza dei vari “mattoncini” che compongono il Dna del tartufo bianco. Un risultato importante dal punto di vista scientifico e con ricadute concrete».
I risultati
Di Dna del tartufo si è iniziato a parlare negli Anni 80 quando Karry Banks Mullis, premio Nobel per la chimica nel 1993 (con cui Bonfante ha collaborato), ha messo a punto i primi marker molecolari per identificare tutti i diversi tipi di tartufo, in particolare quello nero. Grazie anche a quelle ricerche è stato possibile smascherare gli autori delle truffe delle piante micorizzate, che venivano vendute come se gli fosse stata inoculata la spora del tartufo. «Oppure possiamo certificare li vari tipi di tartufo nero, per evitare che sulla tavola ci si trovi uno scorzone invece di una varietà più pregiata».
Che applicazioni pratiche hanno questi studi? «Intanto abbiamo decodificato il genoma, ora possiamo approfondire i vari aspetti» spiega Bonfante durante il convegno «Asti palazzi del gusto -. I mille profumi del Monferrato», kermesse dedicata al tartufo bianco d’Alba e ai vini astigiani che prosegue oggi. È possibile distinguere un tartufo d’Alba da uno di Acqualagna? «Teoricamente sì, ma non è questo lo scopo della ricerca». «Abbiamo imparato come il tartufo vive in simbiosi con la pianta – spiega Simone Belmondo, torinese, ricercatore presso l’Inra a Nancy -. In confronto ad altri funghi, ha un numero inferiore di geni che degradano le cellule delle piante su cui vive, per cui non le danneggia. Poi verificheremo la possibilità di coltivare il tartufo bianco come già si fa con quello nero». «Questi studi ci permettono di sviluppare strumenti che ci consentono poi di andare sul campo» aggiunge Claude Marat. «Pensiamo alle ricadute che lo sviluppo di questo settore può avere sul territorio» osserva Loretta Bologna, assessore di Asti che pensa anche a collaborazioni con i corsi universitari attivi in città.