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 2018  novembre 16 Venerdì calendario

Biografia di Martin Scorsese

Martin Scorsese (Martin Charles S.), nato a New York il 17 novembre 1942. Regista. Sceneggiatore. Produttore. Tra i numerosi riconoscimenti: un premio Oscar al miglior regista (The Departed – Il bene e il male, 2007), una Palma d’oro (Taxi Driver, 1976), un Leone d’argento per la miglior regia (Quei bravi ragazzi, 1990) e un Leone d’oro alla carriera (1995). «I miei nonni, arrivati in America dalla Sicilia all’inizio del Novecento, erano italiani. I miei genitori, nati qui, erano italoamericani. Io ero, e ancora sono, americano italiano» • Il nonno paterno si chiamava in realtà Francesco Paolo Scozzese: «Quando i miei nonni sono arrivati a Ellis Island, nel 1910, hanno sbagliato a trascrivere il loro nome. Anche in un memoriale della Prima guerra mondiale c’è scritto “Scozzese”. Nel senso di “Scotsman”, abitante della Scozia. […] A Polizzi Generosa ci sono le rovine di un antico castello dei normanni. Immagino che i miei avi fossero scesi in Sicilia con loro. Ho fatto un test del Dna: dalla parte di mia madre sono totalmente mediterraneo, da quella di mio padre hanno trovato dei geni che sembrerebbero simili a quelli degli abitanti delle Shetland, le isole a nord della Scozia» (a Gian Antonio Stella). Nel settembre 2018, dopo lunga attesa, ha ottenuto la cittadinanza italiana: il suo atto di nascita è stato registrato presso il Comune di Polizzi Generosa (Palermo) • «Quando quelle prime ondate di immigrati arrivarono dall’Italia, ricostruirono il mondo che conoscevano. Crearono un luogo che venne chiamato Little Italy, che possedeva tutta la bellezza e il calore, tutto il dolore e le tensioni interne, del Paese che avevano abbandonato. Mentre crescevo, Little Italy costituiva un mondo a sé stante, collocato in un angolino del Lower East Side di Manhattan. […] Le feste, i rituali, il cibo, le merci, i valori: tutto arrivava dal Sud Italia. Prima che io nascessi, le persone arrivate dallo stesso paese vivevano in un unico edificio e i matrimoni tra uomini e donne di edifici diversi erano una faccenda delicata. La famiglia di mia madre arrivava da Ciminna, la famiglia di mio padre da Polizzi Generosa, e si sposarono solo dopo che gli anziani si furono riuniti ed ebbero dato il loro assenso». Padre stiratore («Stirava vestiti da donna. In una grande azienda di sfruttatori. Tanto vapore. Un caldo terribile. Niente aria condizionata. Era come se lavorasse nelle miniere»), madre cucitrice. «Erano tempi, raccontava mia mamma, in cui nelle fabbriche era affisso un cartello: “Se non vieni la domenica, non venire neanche il lunedì”. Dovevi lavorare tutti i giorni. Tutti. Chi non era disposto a lavorare sempre veniva lasciato a casa». «Più che in italiano, a casa mia si parlava in siciliano, e quella è la lingua che ho sentito di più da piccolo. Soffrivo d’asma, e i medici avevano raccomandato ai miei di farmi stare tranquillo: niente corse, niente sport, e nemmeno troppe risate, perché altrimenti diventavo blu e rischiavo il collasso. Così hanno cominciato a portarmi sempre al cinema». «Il cinema m’ha rovesciato addosso il mondo senza confini. Era fatto di film americani, inglesi, italiani, giapponesi, indiani. In grande, era quel che vedevo ogni giorno sotto casa, da cui non uscivo quasi mai per i miei problemi d’asma». Nel 1946, la prima folgorazione: «Il primo film di cui ricordo il titolo è Duello al sole di King Vidor. La rassicurante oscurità della sala fu improvvisamente squarciata da un’esplosione stravagante di colori vivaci, seguiti da parecchi colpi di pistola. Fu una grandiosa esperienza sensoriale: l’intensità selvaggia della musica, il Technicolor in tricromia, la sensazione dello spazio e infine il duello al sole vero e proprio». «Il primo film che ho visto in cui c’erano personaggi in cui mi riconoscevo è stato Fronte del porto di Elia Kazan. […] Quando avevo 5 anni avevo a casa una piccola tv, dove guardavo i film neorealisti: Roma città aperta, Sciuscià, Paisà e Ladri di biciclette. A me apparivano come vita vera e avevano qualcosa che si ricollegava con la mia famiglia. Non sembrava cinema, ma semplicemente la quotidianità». Quando non andava al cinema con i genitori, «da bambino me ne stavo in casa a disegnare. Non potevo uscire, fare sport. Gli storyboard erano il mio sport, il mio cinema. L’unico kolossal ch’io abbia mai concepito, Eternal City, l’ho disegnato a dieci anni, con magalomania infantile: un peplum stile Studios, produzione MarSco, cioè io, e cast hollywoodiano: Marlon Brando, Virginia Mayo, Robert Taylor… Da quando avevo sette anni ho cominciato a riempire la stanza di storyboard. […] Non avevo ancora ben chiaro che un film si fa con la cinepresa» (a Mario Serenellini). «Di luce, nella mia stanza ce n’era poca: forse per questo, sul set, mi è difficile gestirla. L’unica che ricordo bene è quella drammatica della Cattedrale di St. Patrick a New York, dove ho passato tanto tempo». «Quando ero ragazzo, ero davvero fortunato, perché avevo un prete straordinario, padre Principe. Da lui ho imparato tantissimo. […] Quell’uomo era una vera guida. Magari parlava severamente, ma non mi ha mai forzato a fare qualcosa. Ti guidava. Ti ammoniva. Ti persuadeva. Aveva un amore davvero straordinario. […] Sono stato chierichetto e ho servito la messa ai funerali e nella funzione solenne del sabato per i morti. Un mio amico era figlio di un becchino. Ho visto morire la vecchia generazione venuta dalla Sicilia all’inizio del secolo, e per me è stata un’esperienza profonda. […] Io stesso avevo avuto voglia di seguire le orme di padre Principe, per così dire, e di essere un prete. Ho frequentato un seminario minore, ma non sono andato oltre il primo anno. E mi sono reso conto, all’età di quindici anni, che la vocazione è qualcosa di molto speciale, che non si può acquisire» (ad Antonio Spadaro). «Combinando due film italiani, I vitelloni di Fellini e Accattone di Pasolini, si ha un’idea della mia prima formazione: ambiente di miseria e vita di banda, fino al degrado dell’alcol e della droga. Unica forza di coesione, in un’esistenza subito dilapidata, la chiesa e la famiglia, molto allargata: non solo genitori-figli, ma anche nonni, zie, zii e svariati cugini. Un grande abbraccio protettivo che trasmette e fa condividere i valori d’origine». «A Little Italy, gli ex italiani hanno davanti a loro soltanto due strade: il prete o il gangster. I miei amici sono diventati tutti gangster, ma io, con la salute che mi ritrovavo, non potevo certo seguirli. I gesuiti, dal canto loro, non hanno voluto che diventassi prete perché non studiavo abbastanza e perché frequentavo delle cattive compagnie. Così, finito il liceo, sono andato all’Università di New York, e lì non solo ho studiato cinema, ma l’ho anche insegnato. Poi, Hollywood» (a Gianluigi Rondi). «Per me e per i miei amici, il confine a nord era delimitato da Houston Street. Oltre, si trovava il nuovo mondo. […] Incuteva ancora timore quando decisi di lasciarmi quel mondo alle spalle. Fu una scelta molto dolorosa, ma sapevo di doverla fare. […] Sapevo di voler fare dei film. Sapevo di voler mostrare il mondo da cui venivo in quei film. Ma avevo la necessità di osservarlo dal mio punto di vista, mettendo un po’ di distanza tra noi». «La prima cosa da vedere di Scorsese è La grande rasatura, un cortometraggio del 1967. Dura cinque minuti: la canzone è I Can’t Get Started, del 1937; finisce con molto sangue. Il titolo di lavorazione era Viet ’67. Il primo vero film di Scorsese è però Chi sta bussando alla mia porta, del 1967. Parla di ragazzi italoamericani che bevono […] a New York, e di uno di loro, Harvey Keitel, che si innamora. C’è una scena erotica: gliela fecero mettere i produttori. Scorsese aveva 25 anni, e il critico Roger Ebert vide il film e scrisse: “Non ho remore nel descriverlo come un grande momento per il cinema americano”. Prima di fare altri film Scorsese fece l’aiuto-regista e il montatore per il documentario Woodstock e ne diresse uno: Scena di strada del 1970, sulle proteste contro la guerra del Vietnam» (Gabriele Gargantini). Quindi «realizza un film – Mean Streets (1973) – di sicura originalità, violento, percorso dall’ossessione del peccato e interpretato con quasi disperata energia da Harvey Keitel e Robert De Niro. Lo stesso De Niro che disegnerà mirabilmente la figura di un nevrotico reduce dal Vietnam in un film desolato e “sporco” (colori sottoesposti, riprese notturne, interni squallidi, uso insistito della macchina a mano) al quale il festival di Cannes assegna la Palma d’oro: Taxi Driver (1976). Ossessioni metropolitane, brutalità e violenze – vere o immaginate – attraversano tutta la filmografia di un autore che l’industria fatica ad accettare. Persino nelle commedie, come Re per una notte (1984), con Jerry Lewis e De Niro, o negli incubi ironici e stravaganti, come il delizioso Fuori orario (1985), si avverte il peso di una profonda infelicità. E, se in una nostalgica rivisitazione del musical e del dopoguerra americano come New York, New York (1977), interpretato da una generosa Liza Minnelli e dal solito preciso De Niro, si coglie più malinconia che disperazione, nella cruda biografia del pugile italoamericano Jake LaMotta (Toro scatenato, 1980), nuova prodigiosa prestazione di De Niro premiata con l’Oscar, tutte le ansie e i furori di Scorsese esplodono senza ritegno in un bianco e nero contrastato come una attualità. Con Quei bravi ragazzi (1990) siamo dentro la mafia, fra la manovalanza dell’organizzazione, che il regista descrive con scrupolo di verità e un astio apparente da cui traspare una ruvida simpatia. Di buona, professionale amministrazione Il colore dei soldi (1986), che frutta un Oscar a Paul Newman, l’angoscioso Cape Fear – Il promontorio della paura (1991) e l’accademico L’età dell’innocenza (1993), da Edith Wharton. Fuori misura in tutto, provocatorio e (in un certo senso) autodenigratorio, il film scandalo della Mostra di Venezia 1988 – L’ultima tentazione di Cristo – non possiede né la forza dirompente né la profondità che il cattolico Scorsese avrebbe voluto mettervi» (Fernaldo Di Giammatteo). Seguì, nel 1995, il terzo capitolo della cosiddetta trilogia della mafia (dopo Mean Streets e Quei bravi ragazzi), Casinò, con De Niro protagonista per la settima volta. Poi, «dopo un’incursione nel mondo religioso orientale con il lirico Kundun (1998), sulla figura del Dalai Lama e sul tema universale del potere, ritorna a tematiche più congeniali alle sue corde con il drammatico Al di là della vita (1999), con Nicholas Cage nei panni di un paramedico che gira di notte su un’ambulanza per le vie di New York, e con l’epico affresco Gangs of New York (2002). Con The Aviator (2004) rende invece omaggio al mito di Howard Hughes, stravagante e leggendario produttore della Hollywood classica, nonché pioniere dell’aviazione americana, in un biopic rutilante. Nel 2005 realizza il documentario No Direction Home – Bob Dylan, sulla figura dell’inclassificabile artista americano a cavallo degli anni Sessanta, e nel 2006, all’ottava nomination, vince finalmente l’Oscar per la miglior regia con The Departed – Il bene e il male, remake del film hongkonghese Infernal Affairs (2002) di Andrew Lau e Alan Mak: una talpa di Frank Costello, luciferino boss della malavita irlandese, e un poliziotto infiltrato nell’organizzazione mafiosa si scambiano ruoli e morale, in un thriller poliziesco in cui Scorsese ammanta di una cupezza senza speranza i temi tipici del suo cinema» (Alessandro Poggiani). Negli ultimi anni, oltre a mantener vivo il sodalizio con DiCaprio, protagonista nel 2010 del thriller psicologico Shutter Island e nel 2013 dell’acclamato film biografico The Wolf of Wall Street (storia del cinico e brillante Jordan Belfort, ricchissimo agente di borsa e truffatore di fine anni Ottanta), Scorsese si è cimentato per la prima volta con la tecnologia 3D in Hugo Cabret (2011), originale omaggio al regista e illusionista francese Georges Méliès (1861-1938) ispirato al romanzo La straordinaria invenzione di Hugo Cabret di Brian Selznick, ed è tornato ad affrontare tematiche religiose con Silence, tratto dal romanzo storico Silenzio di Shusaku Endo sulle persecuzioni anticristiane nel Giappone del XVII secolo. È attualmente in corso di lavorazione The Irishman, in cui Robert De Niro, per la nona volta protagonista di un film di Scorsese, interpreta Frank Sheeran (1920-2003), il sindacalista mafioso che confessò di aver ucciso Jimmy Hoffa (1913-1975) • Il 22 ottobre 2018, ricevendo il premio alla carriera alla Festa del cinema di Roma, ha indicato ad Antonio Monda i nove film italiani fondamentali per la sua formazione, «non i miei preferiti perché dopo ho visto tanti altri film italiani molto belli, ma quando io già era regista. Questi sono i film che per me non erano cinema: erano la vita vera». «Si parte dall’Accattone (1961) di Pier Paolo Pasolini (“un vero shock per me: non sapevo chi fosse Pasolini ma capivo i suoi personaggi perché venivo da quei mondi, dagli ultimi di New York che non erano diversi dagli ultimi di Roma. Pasolini mi ha insegnato la santità dell’animo umano”) per continuare con La presa del potere di Luigi XIV (1966) di Roberto Rossellini (“attraverso il dettaglio Rossellini sapeva raccontare la Storia”), e ancora Umberto D. (1952) di Vittorio De Sica (“il momento ultimo e sublime del Neorealismo con la purezza, la dignità e l’ironia di De Sica”), Il posto (1961) di Ermanno Olmi (“il documentarista che ha reso pura la finzione”), L’eclissi (1962) di Michelangelo Antonioni (“colui che mi ha insegnato un’esperienza di cinema nuova, diversa, alienante. Il suo lavoro sullo spazio, sulla composizione, sulle luci e ombre, sui personaggi: tutto in Antonioni apparteneva a una mente ‘altra’, a una fantascienza narrativa”), Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi (“l’arguzia che cerco nel cinema, lui me l’ha donata”), Salvatore Giuliano (1962) di Francesco Rosi (“il criminale che diventa figlio, ovvero l’umanità totale”), Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti (“Visconti con questo film e con Rocco e i suoi fratelli mi ha insegnato come combinare l’impegno politico con il melodramma infinito.  Il Gattopardo è la sovrapposizione perfetta di questo binomio e poi Donnafugata è città di mia nonna”), per finire con Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini (“il sublime della rinascita dopo l’invocazione della morte”). E, a proposito dell’immenso cineasta de La strada (“il primo film che ho visto di Fellini”), Scorsese aggiunge che dovevano girare un film insieme, “un documentario per Universal a inizi anni ’90… ma poi Federico ci ha lasciati”» (Anna Maria Pasetti) • Cinque matrimoni (il terzo, dal 1979 al 1982, con Isabella Rossellini), tre figlie: una dalla prima moglie, una dalla seconda, la terza dalla quinta e attuale consorte. «La prima, Catherine, è italo-americana: anche se la mia prima moglie non era italiana, viveva con me, i miei genitori, conosceva i quartieri italiani… insomma, è italo-americana. La seconda, Domenica, è americana. La terza, Francesca, è “troppo” americana» • «Io sono ossessionato dallo spirituale. Sono ossessionato dalla domanda su ciò che siamo. […] La mia strada è stata, ed è, il cattolicesimo. Dopo molti anni in cui ho pensato ad altre cose, ho assaggiato questo e quello, mi trovo meglio da cattolico. Credo nei princìpi del cattolicesimo. […] Nella mia gioventù, man mano che crescevo, per me il volto di Cristo era sempre un conforto e una gioia. […] Il miglior film su Cristo, per me, è Il Vangelo secondo Matteo, di Pasolini. Quando ero giovane, volevo fare una versione contemporanea della storia di Cristo ambientata nelle case popolari e per le strade del centro di New York. Ma, quando ho visto il film di Pasolini, ho capito che quel film era già stato fatto» • Colleziona santini («ne ho tantissimi») • «La famiglia, di sangue e acquisita, non ha mai smesso di rivivere nel mio cinema, a partire da Italianamerican, il documentario che nel 1974 ho girato sui miei genitori. Vi è entrata anche fisicamente, per tre decenni: mia madre Catherine è stata nei miei film la "mamma" italiana, con mio padre Charles e altri familiari in ruoli minori». Ancora oggi, Scorsese considera il documentario Italoamericani (Italianamerican) «la cosa migliore che io abbia mai fatto. Lì ho capito come una sola immagine di una sola persona possa raccontare una storia. Un mondo. Erano meglio degli attori, ma non erano attori. […] Erano la naturalezza pura. La spontaneità pura» • Grande passione per la musica. «La chitarra di Django Reinhardt è il mio primo ricordo: i dischi di mio padre. In casa non c’erano libri. Ma musica, sempre, a tutto volume, jazz, rock, classica. Per Mean Streets mi sono ispirato a quel che sentivo di notte nei bar di Little Italy. Spesso le canzoni hanno preceduto il film, come uno storyboard sonoro: da Jumpin’ Jack Flash e Be My Baby dei Rolling Stones sono nate le immagini sullo schermo. Com’era successo trent’anni prima con L’ultimo valzer, leggendario addio di The Band. Il cinema mi ha avvicinato ai miti della musica, a Bob Dylan, George Harrison, Michael Jackson, Peter Gabriel, Philip Glass, Bernard Herrmann» • «Martin Scorsese è uno dei pochi registi a essere anche un autentico conoscitore del cinema e della sua storia: è praticamente un’enciclopedia vivente della settima arte. Non solo ama e studia il cinema di tutto il mondo, ma s’impegna da molti anni affinché le pellicole non vengano distrutte dal passare del tempo, grazie alla sua Film Foundation, creata nel 1990, e alla World Cinema Foundation, fondata nel 2007 per il restauro e la salvaguardia di capolavori non solo americani ma di ogni Paese non provvisto di strumenti per la conservazione del proprio patrimonio cinematografico» (Silvia Bizio) • «Ogni attimo deve essere essenziale. Andare al punto. Facendo negli anni ’80 uno spot per Armani ho imparato che potevo ridurre tutto al minimo senza perdere nulla. Nulla. Il film Goodfellas, in italiano Quei bravi ragazzi, deve molto a quella tecnica imparata con la pubblicità. E così The Wolf…». «Sono evidentemente affascinato dall’immagine-simbolo del sacrificio, che ho introdotto in film del tutto profani come Chi sta bussando alla mia porta, Mean Streets, Taxi Driver, Toro scatenato, Cape Fear e The Departed. Credo di avere una bella familiarità con la figura di Gesù. I primi ricordi di Cristo crocifisso risalgono alla prima infanzia: le sculture della cattedrale Saint Patrick. Ma, al di là dell’iconografia, alla base della maggior parte dei miei film c’è una concatenazione di princìpi cristiani: peccato, espiazione, perdono. Afflitti da un profondo senso di colpa, i miei personaggi cercano la redenzione: David Carradine in America 1929: sterminateli senza pietà, […] oppure Harvey Keitel in Mean Streets o Robert De Niro in Toro scatenato. Tutti si ritrovano nella posizione della vittima sacrificale, del martire crocifisso, come Gesù. L’assoluzione, però, nei miei film, non viene da Dio, ma da noi stessi. Il problema è tutto lì. Il mio cinema non è un rosario con happy end a fine giro» • «Grande rappresentante della cosiddetta New Hollywood, Martin Scorsese è considerato – insieme al quasi coetaneo Francis Ford Coppola – come uno fra i maggiori registi della sua generazione. Temi centrali dei suoi film sono la violenza istintiva dell’uomo e il suo rapporto con la responsabilità, il peccato e la religione. Il suo stile, sovente contraddistinto da sequenze virtuosistiche e da violenza iperrealista, trae ispirazione dalla Nouvelle vague francese, dal neorealismo italiano e dal cinema indipendente americano di John Cassavetes» (Poggiani). «Troppo venerdì di passione e non abbastanza domenica di resurrezione» (padre Principe a proposito del cinema di Scorsese). «Scorsese ha deciso alla fine che, tra gangster e prete, era meglio diventare regista. Eppure l’impressione, dopo tutti questi anni, è che non si sia ancora liberato né dell’uno né dell’altro. Fortuna sua, e nostra» (Gianluca Arnone) • «“Con Robert De Niro e con Leonardo DiCaprio mi accomuna un sentimento di fiducia reciproca. Ci piacciono le stesse storie”. […] Fu l’amico Robert a ripescare un Martin allora in piena deriva, droghe comprese, spingendolo a fare Toro scatenato nel 1980. Così come fu Leonardo a insistere con Martin perché portasse sul grande schermo la storia vera di un trader impazzito: così è nato The Wolf of Wall Street (2013)» (Leonardo Martinelli) • Negli anni Settanta, dichiarò a Rondi: «Certo, ormai ho un sacco di amici, ho avuto successo, denaro, d’accordo, ma resto off, un ex italiano nato nel “ghetto” italiano; non uno straniero, ma un “estraneo”». Quarant’anni dopo, ha confermato a Stella: «Io mi sento ancora un estraneo. Appena esco di casa lo sono. Non credo che ci si debba necessariamente amalgamare dentro una cultura. Io ho la mia. Questo è il mio Paese. Ovvio. Ci sono nato. Ma io non sono come “loro”. […] Ho provato a far parte della società americana. Non ci sono riuscito. Non appartengo a questa società. Il modo in cui il mondo sta cambiando non è il mio… il tipo di comunicazione… Preferisco un modo di vivere più quieto. O forse sto solo diventando vecchio».