15 novembre 2018
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Biografia di Carlo De Benedetti
Carlo De Benedetti (Carlo Debenedetti), nato a Torino il 14 novembre 1934 (84 anni). Ingegnere. Finanziere. Imprenditore. Editore. «Sono l’ultimo grande vecchio che è rimasto in Italia, […] perché gli altri sono morti. Non per merito ma per decorrenza dei termini, come si dice» • A proposito del cognome, il fratello Franco Debenedetti (classe 1933), celebre dirigente, politico e saggista, ha spiegato a Sergio Rizzo: «Mio padre ha sempre scritto il suo cognome “Debenedetti”, tutto attaccato. Mio fratello Carlo ed io siamo registrati all’anagrafe così. Alcuni fratelli di mio padre scrivevano invece il cognome “De Benedetti”, staccato. Entrambe le versioni convivono all’interno della stessa famiglia. Io mantengo la versione filologicamente corretta. Mio fratello è più pragmatico» • Ascendenze ebraiche sefardite per parte paterna (cattoliche, invece, la madre e la nonna paterna). «Il bisnonno, Salvador Bonifort Debenedetti, sposato con Dolcina Artom (cognomi che contano, nella storia del Risorgimento italiano, ma anche della finanza del Nord) aveva avuto sedici figli. […] Da Israel […] era nato Rodolfo Debenedetti» (Antonio Calabrò e Fabio Tamburini). «Rodolfo Debenedetti padre, […] quinto di otto fratelli, nacque nel 1892 ad Asti. Il padre, Israel, ebreo, aveva sposato una cattolica, Olimpia Boano. […] Nel 1921 fonda insieme ad altri soci un’azienda per la produzione di tubi flessibili in metallo, la “Compagnia italiana tubi metallici flessibili spa”, fabbricando su licenza tedesca, grazie al sostegno finanziario dei cugini banchieri, i De Benedetti del lato Camillo. Sua moglie, Pierina Fumel, è una ragioniera della ditta, e sarà una compagna anche nel lavoro. Dopo l’8 settembre del 1943, la famiglia Debenedetti si rifugia in Svizzera; la fabbrica è distrutta. Durante i due anni trascorsi a Lucerna, alla pensione Ruttmann, Franco e Carlo frequentano la scuola cantonale e imparano il tedesco. Ciascuno teneva un diario, […] in cui annotava i fatti del giorno. […] Finita la guerra, Rodolfo rimette in piedi la fabbrica, e la produzione di tubi riprende l’attività» (Marco Ferrante e Silvia Bernasconi). «Prende la laurea in ingegneria elettrotecnica al Politecnico di Torino nel ’58. Giusto il tempo di chiudere i libri, e il padre Rodolfo lo fa entrare nell’azienda di famiglia, la Compagnia italiana tubi metallici flessibili. La svolta arriva però più di un decennio dopo – era il 1972 –, quando acquista assieme al fratello Franco […] la Gilardini, società quotata alla Borsa di Milano che fino ad allora aveva operato nell’immobiliare. L’Ingegnere cambia radicalmente settore di business e la trasforma in una holding, la prima di una lunga serie, impegnata nell’elettromeccanica. Ma proprio attraverso la Gilardini De Benedetti può compiere il primo grande passo nei salotti buoni dell’economia italiana. È il ’76 quando, grazie all’appoggio dell’ex compagno di scuola Umberto Agnelli, viene nominato amministratore delegato della Fiat, portando in dote il 60% delle azioni Gilardini che cede ai suoi nuovi “padroni” (si fa per dire), in cambio di un 5% del Lingotto. Ma l’idillio dura poco: tre mesi, e la luna di miele con la dinasty piemontese dell’auto finisce. De Benedetti si dimette. Sulla vicenda si fece in quei mesi una varietà sconfinata di ipotesi. La più suggestiva riferiva di una scalata tentata dai due fratelli (Carlo aveva portato alla corte degli Agnelli anche Franco) alla Fiat con l’appoggio di una cordata svizzera. La verità, al riguardo, probabilmente non è ancora stata scritta. La rottura, comunque, è traumatica. Le vie dell’Ingegnere e quelle dell’Avvocato per molti anni si incroceranno, e non sempre in maniera amichevole. […] Chiusa la parentesi nelle quattro ruote, nel dicembre di quello stesso anno, il 1976, rileva dai conti Bocca le Concerie industriali riunite, che trasforma in breve in una holding industriale ribattezzandola Cir» (Attilio Barbieri). «Gli investimenti della compagnia si diversificano rapidamente: nel 1977, tra l’altro, la Cir acquista la Sasib. Holding finanziaria è la Cofide. Altra creatura di De Benedetti in quegli anni è l’Euromobiliare, una delle grandi finanziarie italiane. È sempre negli anni Settanta che De Benedetti realizza l’operazione che lega il suo destino a quello dell’Olivetti, una delle imprese italiane più conosciute nel mondo: nel ’78 ne diventa vicepresidente e amministratore delegato, nel 1983 presidente e ad» (Maurizio Ricci). «Nel 1978 […] la Olivetti è un’azienda dal nome, sì, glorioso, ma molto indebitata e dal futuro incerto. De Benedetti pone le basi per un nuovo periodo di sviluppo, basato sulla produzione di personal computer e sull’ampliamento ulteriore dei prodotti, che vede aggiungersi stampanti, telefax, fotocopiatrici e registratori di cassa. Soprattutto quello dei registratori di cassa sarà un affare d’oro, quando nel 1985 Bruno Visentini, ministro delle Finanze del governo Craxi, obbliga per legge tutti i commercianti al dettaglio al loro utilizzo con emissione dello scontrino fiscale. Indubbiamente, era una misura indispensabile per combattere l’evasione. Il fatto che lo stesso Visentini fosse stato presidente della Olivetti diede però luogo a fiere polemiche, anche se oggi di quel conflitto di interessi e di quel favore del governo Craxi a De Benedetti si è persa memoria quasi del tutto» (Maurizio Stefanini). «Certo, l’indebitamento era alto e la storia imponeva il difficile passaggio dal mondo della macchina per scrivere a quello dei computer. L’appuntamento fu perso, malgrado gli splendidi inizi (il grande calcolatore Elea, il piccolo Programma 101, primo computer da tavolo al mondo). De Benedetti gestì il lungo declino, non senza adesione allo stile dell’epoca: le mazzette per vendere computer e telescriventi alla pubblica amministrazione. Nel 1993, presentò al pool Mani pulite di Milano un memoriale in cui ammetteva di aver pagato tangenti per 10 miliardi di lire ai partiti per ottenere una commessa dalle Poste italiane. Roma gli fece lo sgambetto: un mandato d’arresto firmato da Augusta Iannini, giudice (e moglie di Bruno Vespa). Manette e liberazione, tutto in un giorno. Iannini, vent’anni dopo, in una lettera al Foglio ha detto di avere un solo pentimento: di averlo scarcerato troppo in fretta. Dieci anni prima, si era imbarcato sul galeone pirata del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Nel 1981 aveva comprato il 2 per cento del già traballante Banco e ne era diventato vicepresidente. Dopo due mesi, era sbarcato di corsa dal veliero che stava per andare contro gli scogli del crac. Porta a casa una plusvalenza di 40 miliardi di lire: gli costa un processo per concorso in bancarotta fraudolenta con condanna in primo grado (8 anni e 6 mesi), confermata in appello, ma evaporata in Cassazione» (Gianni Barbacetto). «Entra in Buitoni-Perugina e contratta nel 1985 con Romano Prodi un’operazione che può essere considerata l’apripista della stagione delle privatizzazioni: l’acquisto dall’Iri del gruppo alimentare Sme. L’affare viene bloccato dalle forze politiche e sfuma. Sul versante estero, De Benedetti negli anni Ottanta deve invece digerire anche la sconfitta nella battaglia cominciata nel 1988 e terminata nel ’91 per acquisire il controllo della Sgb, Société générale de Belgique, azienda di cui si volle alla fine impedire il passaggio in mani straniere» (Ricci). «Il colpo decisivo gli fu inferto proprio dagli alleati francesi del suo avversario italiano, Agnelli. Da quel momento la storia di De Benedetti sarebbe cambiata. Si attrezzò su un orizzonte più italiano, e lentamente alla lunga storia della competizione con il padrone della Fiat se ne sostituì un’altra, altrettanto intensa: quella con Silvio Berlusconi, che si dispiegò nel gioco delle simpatie e delle appartenenze prima e poi in quel terreno complesso – sospeso tra editoria, politica e potere – in cui entrambi, con funzioni diverse, si concentrarono negli anni Novanta e nei Duemila» (Ferrante e Bernasconi). «È nel 1987 che De Benedetti diventa editore. Compra una partecipazione nella Mondadori e dunque anche nel gruppo Espresso-Repubblica. Tre anni dopo, la Mondadori di Mario Formenton, sfiancata dal tentativo di entrare nel mercato televisivo, riceve le promesse d’aiuto di due cavalieri bianchi, Silvio Berlusconi e, appunto, Carlo De Benedetti. Entrambi vantano un accordo con la famiglia Formenton per comprarne le azioni. Scoppia la “guerra di Segrate”. La contesa viene sciolta da un lodo arbitrale che dà ragione all’Ingegnere, ma il Cavaliere impugna il lodo Mondadori davanti alla corte d’appello di Roma che, nel gennaio 1991, con sentenza firmata dal giudice Vittorio Metta, annulla il lodo e spiana la strada a Berlusconi, il quale, con una trattativa propiziata da Giuseppe Ciarrapico, taglia con la spada il gruppo e conquista la Mondadori, lasciando all’Ingegnere il gruppo Espresso-Repubblica. Peccato che la Procura di Milano, indagando a partire dal 1996 sulle “toghe sporche” di Roma, scopra che la sentenza Metta era stata comprata con 400 milioni Fininvest, distribuiti dall’avvocato Cesare Previti. Segue risarcimento danni a De Benedetti: 540 milioni. Ormai l’Ingegnere è l’editore di Repubblica e del gruppo l’Espresso. Ed è diventato il grande antagonista di Previti e Berlusconi. Così riesce a ottenere ottimi sconti dall’opinione pubblica antiberlusconiana, per i suoi tanti affari. Nel settore sanitario con il gruppo Kos. Nell’energia con Sorgenia, che, piena di debiti, passa alle banche che lo avevano finanziato. […] Deve consolarsi con operazioni minori, come il blitz finanziario della società M&C, in cui era stato annunciato l’ingresso del Grande Nemico (Berlusconi): nel 2005 gli frutta belle plusvalenze, ma anche un’accusa di insider trading per cui ha pagato una sanzione di 30 mila euro. L’anno scorso [cioè nel 2015 – ndr] trascina in tribunale Marco Tronchetti Provera, che l’aveva sintetizzato così: “È stato molto discusso per certi bilanci Olivetti, per lo scandalo legato alla vicenda di apparecchiature alle Poste italiane, fu allontanato dalla Fiat, coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano, finì dentro per le vicende di Tangentopoli”. Per questo fulminante “bigino” della De Benedetti story, chiede un risarcimento di 500 mila euro, ma il tribunale glielo nega» (Barbacetto). Nel gennaio 2009 De Benedetti cedette al primogenito Rodolfo tutte le cariche operative all’interno di Cir tranne la presidenza del Gruppo editoriale L’Espresso, che trattenne per sé fino a portare a compimento, nel marzo 2017, l’incorporazione dell’Itedi (la società editrice dei quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, controllata dagli Agnelli), assicurando alla Cir il controllo della società risultante dalla fusione, rinominata Gruppo Editoriale (Gedi). Nel giugno 2017 De Benedetti assegnò quindi al secondogenito, Marco, la presidenza di Gedi, assumendone la presidenza onoraria, senza però rinunciare a far sentire la propria voce, con prese di posizione pubbliche talvolta controverse e imbarazzanti per lo stesso gruppo. Particolarmente fragoroso, tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018, lo scontro con il fondatore di Repubblica, dopo che Scalfari ebbe detto, durante una trasmissione televisiva, che, alle successive elezioni politiche, qualora costretto a scegliere tra Luigi Di Maio e Silvio Berlusconi, avrebbe votato per il secondo: dichiarazione immediatamente stigmatizzata da De Benedetti («Penso l’abbia fatto per vanità, per riconquistare la scena. Ma è stato un pugno nello stomaco per gran parte dei lettori di Repubblica, me compreso»), che qualche settimana dopo, di fronte all’ostentato disinteresse di Scalfari («Me ne fotto»), giunse a dire che «Eugenio è molto anziano non più in condizione di rispondere. […] Scalfari dovrebbe ricordarsi quando, negli anni ’80, lui e Caracciolo erano tecnicamente falliti: misi 5 miliardi di lire contribuendo a salvarli; e ho dato un pacco di soldi pazzesco a Eugenio quando volle lasciare le quote: può solo stare zitto tutta la vita. […] Con me è stato assolutamente ingrato». Nel frattempo si erano andati sempre più logorando i rapporti col quotidiano, dalle cui colonne, dopo alcune critiche di De Benedetti alla nuova gestione, il nuovo editore, suo figlio Marco, prese le distanze dal padre, precisando che tali opinioni «non rappresentano né il pensiero degli azionisti, né quello del vertice della Società, che sono tutti determinati a proseguire sulla strada tracciata». «Nella sua prima vita Carlo De Benedetti ha fatto il finanziere, con scorribande da raider in mezza Europa (e qualche tentativo non proprio riuscitissimo di fermarsi a fare l’imprenditore classico). Nella età di mezzo ha puntato tutto sul suo ruolo di editore, centrando il suo gruppo su Repubblica, L’Espresso e i quotidiani locali. Poi, superati gli 80 anni, ha annunciato il passo indietro a favore dei figli e l’intenzione di andare in pensione. Ovviamente non è stato così, e nella sua terza età l’Ingegnere più famoso d’Italia ha scoperto una vera e propria passione per il mattone. Fa il mestiere che ancora gli mancava: il palazzinaro. Certo, non costruisce in prima persona: cerca buone occasioni, le prende al volo e poi le rivende con plusvalenze da capogiro. Ormai è quella l’attività principale della sua holding personale, la Romed» (Franco Bechis) • Grande clamore, nel gennaio 2018, quando fu divulgata un’intercettazione, risalente al gennaio 2015, in cui De Benedetti rivelava al suo intermediario finanziario di sapere per certo («Passa, ho parlato con Renzi ieri, passa») che entro breve il governo avrebbe approvato il decreto sulle banche popolari (come infatti avvenne pochi giorni dopo), per poi fargli investire per suo conto in tale settore 5 milioni di euro, ricavandone in poco tempo plusvalenze per 600 mila euro. Interrogato in merito dalla Consob, De Benedetti rivelò la propria consuetudine con numerosi membri dell’esecutivo, a cominciare da Renzi, con cui a suo dire era solito intrattenersi a colazione per fornirgli in via amichevole consulenze di carattere economico e finanziario • Nell’aprile 2018 è stato assolto insieme al fratello Franco presso la Corte d’appello di Torino dalle accuse di omicidio colposo e lesioni mossegli dalla Procura di Ivrea «per le morti e i tumori provocati dall’amianto negli stabilimenti Olivetti. […] Per i giudici della terza sezione penale “il fatto non sussiste”. Per questi fatti i fratelli De Benedetti, che furono rispettivamente presidente e vicepresidente del gruppo con le funzioni di amministratori delegati, furono condannati a 5 anni e 2 mesi di carcere il 18 luglio 2016. Con loro fu condannato anche l’ex ministro del governo Monti con un passato da ad alla Olivetti, Corrado Passera: in primo grado era stato condannato a un anno e 11 mesi. […] Ora, invece, possono tirare un respiro di sollievo» (Andrea Giambartolomei). «Ribadisco la mia estraneità. Non tutti hanno idea di cosa significhi governare un gruppo di 70 mila dipendenti. Secondo l’indagine, l’amianto era anche negli uffici dove ho lavorato per 18 anni. Se lo avessi saputo e ne avessi conosciuto la pericolosità, non crede che l’avrei fatto togliere?» (ad Aldo Cazzullo) • Nel gennaio 2015, «dopo aver compiuto 80 anni e aver lasciato ogni attività esecutiva da ormai sei anni, ho deciso di andare a vivere in Svizzera, un Paese al quale sono molto legato fin dall’infanzia, trasferendovi la mia residenza civile e fiscale. In passato sono già stato per qualche tempo residente civilmente in Svizzera, mentre fino alla fine del 2014 ho sempre mantenuto la residenza fiscale in Italia. […] Oggi […] non ricevo più alcun compenso in Italia. In tempo di guerra e durante gli “anni di piombo” la mia famiglia trovò rifugio in Svizzera: sono molto grato a questo Paese. Come sono grato e devo molto anche all’Italia, dove ho svolto la mia intera attività lavorativa, dando vita a molte aziende che hanno creato reddito e posti di lavoro e che continueranno ad avere un ruolo importante nell’economia nazionale. Italia e Svizzera, di cui sono cittadino, sono i due Paesi della mia vita» • Dalla prima moglie, Mita Crosetti, ha avuto i tre figli Rodolfo, Marco ed Edoardo (cardiologo). Nel 1997 ha sposato l’attrice Silvia Monti. «A sessant’anni mi è successa una cosa che non credevo possibile: mi sono innamorato, e mi sono risposato. Grazie a mia moglie Silvia ho scoperto un’altra vita. Abbiamo girato il mondo in barca, ho coltivato interessi in campi che già prediligevo: arte, collezioni, musei…» • Colleziona orologi di lusso, soprattutto vecchi Rolex e Patek Philippe • Ha un tatuaggio sul polso: «“Una domenica, a Hong Kong, non sapevo che fare, mi annoiavo, e allora mi sono fatto tatuare una farfalla. […] Avrò avuto quarantacinque anni… Però, vede, è discreto, nascosto… torinese”. Nel ventunesimo secolo il tatuaggio è diventato una banalità conformista, ma nel 1979, e per un membro dell’establishment, era evidentemente un dettaglio libertino» (Salvatore Merlo) • «Una delle grandi passioni dell’Ingegnere: il trading. Comprare, vendere e guadagnare. Sempre alla ricerca di informazioni. Un istinto che lo ha portato vicino al reato di insider trading» (Marcello Zacché) • «Alla Fiat, quand’era amministratore delegato, lo chiamavano “la tigre”, perché era implacabile, aggressivo, sprezzante e dal licenziamento facile a tutti i livelli. “Adesso sono al massimo un vecchio leone sdentato”, sorride, ma è chiaro che non ci crede nemmeno lui. […] Forse un po’ De Benedetti lo recita, questo ruolo da personaggio goldoniano. In lui sembrano coesistere il timore e il godimento anarchico di sfidare l’universo intero (“Certo che faccio parte dell’establishment, ma sono sempre rimasto ai bordi. Fuori dalle cordate e dalle grandi alleanze”), e, chissà, forse anche una specie di ammirazione inconfessata per la propria spavalderia (“Non sono mai stato iscritto a un partito, rifiutai di fare il senatore con La Malfa”. E la tessera numero uno del Pd? “Cazzate”). […] “Nella mia vita è prevalsa l’immagine di uno che è molto rigoroso nel lavoro. Forse di una persona un po’ brutale. Ma, guardi, le cose che mi piacciono di più sono quelle spiritose… In particolare le barzellette sugli ebrei. E tenga conto che mio padre era ebreo, il nostro cognome ebraico è Ben Baruch, e io stesso mi sento assolutamente ebreo”» (Merlo) • «Qual è il suo più grande successo imprenditoriale? “Quello da cui tutto è cominciato, la trasformazione dell’azienda di mio padre, che aveva una cinquantina di dipendenti, in un’azienda come la Gilardini: con più di 1500 dipendenti e quotata in Borsa”. […] Eppure esiste anche un’ampia, gonfia letteratura sui suoi fallimenti… la Olivetti. E Sorgenia. “Di Sorgenia non mi sono mai occupato”. È l’azienda di Rodolfo. “È un’azienda che è andata male come sono andate male tutte le aziende di energia nell’èra delle rinnovabili. Quanto alla Olivetti: ma che fallimento? Se lei entra in un’azienda di macchine per scrivere e calcolatrici meccaniche tecnicamente fallita […] e la trasforma in un’azienda di personal computer capace di vendere più della Ibm, questo lo considererebbe un fallimento?”. Ma adesso non c’è più la Olivetti. “È l’unica azienda di computer al mondo che si è riconvertita in un’azienda di telefonini. Feci la Omnitel. E se questo non è un successo vuol dire che uno è ignorante, o ce l’ha con me. Io poi non avrei venduto, ma Colaninno decise diversamente. Con quei soldi Colaninno ci scalò la Telecom. Per logica storica oggi Telecom si dovrebbe chiamare Olivetti”» (Merlo). Quando era alla guida dell’Olivetti, conobbe e snobbò Steve Jobs: «Ero a Cupertino con Elserino Piol. Erano le 7 di sera. Ero esausto per le riunioni e per il fuso. Piol mi dice di passare in un garage dove ci sono due capelloni con i jeans stracciati che lavorano a un mini-computer: erano Wozniak e Jobs. Steve mi propose di rilevare il 20% della sua società per 30 milioni di dollari. Me ne andai. Oggi quella quota varrebbe 100 miliardi. Ma quella partita non la persi solo io: l’ha persa l’industria europea, che sulle nuove tecnologie ha rinunciato a un pezzo di futuro» • Inizialmente repubblicano, si schierò poi saldamente a sinistra. «Ha fatto più governi lui di qualsiasi presidente della Repubblica. Ne ha ricavato forse più di tutti dividendi personali e aziendali. A sentire lui ha mosso pure le fila di qualsiasi leader di sinistra nella seconda Repubblica. Da Romano Prodi, che in fondo si era inventato molti anni prima insieme ad Eugenio Scalfari e Ciriaco De Mita, a Francesco Rutelli e Walter Veltroni: fu lui a rivendicare l’idea stessa del Pd. Fino a Matteo Renzi, a cui si sentiva libero (parole sue verbalizzate) di dare del “cazzone”, e a quel governo guidato dal Pd di cui si sentiva da vecchio il gran burattinaio. Un potere talvolta reale, altre volte forse millantato nella leggenda di se stesso che ha sempre cercato di creare» (Bechis). «Ho stimato La Malfa, Berlinguer, Ciampi e Visentini: sono state tutte persone importanti per me. L’Avvocato mi affascinò: gli invidiavo l’impalpabile» • «Il Cavaliere è il nemico della sua vita? “Ma no. È ‘uno’ dei miei nemici, non ‘il’ nemico”. Insisto: ma davvero non siete mai andati d’accordo con Berlusconi? “Ricordo un solo suo gesto di affettuosità, ovviamente pelosa. Fu quando comprai la Sme. Lui fu il primo a chiamarmi, ed era gentilissimo, un vulcano avvolgente. Ovviamente voleva soltanto vendermi degli spazi pubblicitari”. E qui la solida facciata del suo volto si sgretola in un sorriso. China la testa, come un atleta che prende lo slancio per il salto: “Questo episodio dimostra quanto Berlusconi fosse sul pezzo. Lui è sempre sul pezzo, non perde mai un’occasione, non si ferma mai. E in questo è straordinario”. E lo dice quasi con simpatia» (Merlo). «Dopo che Scalfari ha fatto la sua stupidaggine in trasmissione [la dichiarazione sul suo eventuale voto per Berlusconi piuttosto che per Di Maio – ndr], Berlusconi mi ha telefonato e mi ha detto: è finita la guerra, “non ci sono più i comunisti: tu sei di sinistra e io di destra, ma qui ci sono altri problemi per il Paese”. Ma io non faccio politica: ho risposto che non avevamo niente da dirci» • «Uno degli investitori europei più brillanti degli ultimi decenni» (Danilo Taino). «Nel bene e nel male resta il maestro. Il più bravo a tuffarsi nella finanza speculativa, ma anche il più bravo nello spogliare i risparmiatori attraverso le scatole cinesi, le azioni di risparmio, i sovrapprezzi azionari, tutti i trucchi possibili e immaginabili per ottenere il massimo dal mercato dando in cambio il minimo» (Marco Borsa). «Un uomo umanamente arido e avaro, […] ricco di mezzi e povero di spirito» (Giovanni Valentini) • «Il Dna di un imprenditore è incompatibile con la politica: il politico deve essere democratico, mentre l’uomo d’impresa deve essere autocratico» (a Dario Di Vico).