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 2018  novembre 15 Giovedì calendario

Biografia di Daniel Barenboim

Daniel Barenboim, nato a Buenos Aires il 16 novembre 1942 (76 anni). Pianista. Direttore d’orchestra. «Per me oltre la musica non c’è niente. È la musica che è oltre tutto» • Quattro cittadinanze: argentina, israeliana, palestinese e spagnola • Famiglia ebraica di ascendenze ebreo-russe. «Parliamo di un talento che, come lui stesso racconta, inizia quando ancora si rigirava nella pancia di sua mamma, tanto da affermare che fu lì che diresse per la prima volta il Tristan di Wagner. Nella sua casa, inoltre, c’erano due stanze: nella prima suo padre, anche lui musicista, insegnava a suonare il piano ai suoi allievi, e nella seconda sua madre faceva lo stesso. Di fronte, abbiamo dunque un bambino che a 3 anni immaginava che tutto il mondo ruotasse attorno al pianoforte e a 7 anni diede il suo primo concerto» (Silvia Zanardi). «Ci sono due bambini, nascosti sotto il pianoforte: lei si chiama Martha e lui Daniel. Hanno pochi mesi di differenza; sono entrambi fantastici, quando suonano, già guardati con ammirazione da maestri e genitori. Ma adesso non è il momento di esibirsi: siamo a Buenos Aires, nel 1949, in questo salotto pieno di amici, dove si fa musica da camera per il piacere di stare insieme. Dunque i bambini possono ritagliarsi uno spazio segreto, solo per loro, tra le gambe dello strumento e sotto un tetto di note che si intrecciano. […] Martha Argerich e Daniel Barenboim. […] “Veniamo da una scuola comune, perché lei fu allieva a Buenos Aires di Vincenzo Scaramuzza, che era stato il maestro di mio padre, che fu a sua volta il mio insegnante: ci conosciamo appunto da quando eravamo bambini. Io avevo sette anni e lei otto”» (Carla Moreni). «Mio padre, che è stato praticamente l’unico mio maestro di pianoforte, […] mi diceva: “Tu sei molto bravo, hai concentrazione. Ma non puoi tenere la tua concentrazione per più di un’ora e mezza. Dunque tu studi un’ora e mezza, e basta. Perché, se tu continui a studiare quando sei troppo stanco e non sei concentrato, sviluppi una forma meccanica di suonare. E quella è controproducente”. Dunque, non mi era permesso di studiare per più di un’ora e mezza al giorno. Però, un giorno alla settimana, mi era vietato studiare quello che suonavo, ma avevo il diritto di suonare, cioè di leggere a prima vista, tutto quello che trovavo nella libreria di mio padre. E dunque io ho imparato un sacco di cose, tanti anni prima di poterle suonare. Io suonavo brani di Liszt a otto, nove anni… suonavo certo una piccola percentuale di quello che c’era lì scritto, leggevo a prima vista. Ma così mi sono abituato a interessarmi sempre ad altre cose». In patria debuttò come pianista al Teatro Colón di Buenos Aires il 19 agosto 1950. Poco dopo, si trasferì con la famiglia in Israele («perché i miei volevano darmi un’ottima educazione musicale, […] e per non farmi sentire diverso dagli altri: come bambino musicista e come ebreo»), cominciando nel frattempo a frequentare le istituzioni musicali europee. Nel 1952 il suo debutto internazionale, a Vienna e a Roma. «Quel bimbo dal volto paffuto e in pantaloncini corti esegue Bach, Mozart e Schumann seduto al pianoforte, sulla scena del Teatro Eliseo, che quella sera […] (20 dicembre 1952) ospita la stagione della Filarmonica Romana. Si chiama Daniel Barenboim, e ha dieci anni. Spiccano, sul programma di sala, i giudizi estasiati che già gli dedicano musicisti quali Arrau e Celibidache. […] “Fu un’esperienza fortissima arrivare qui a Roma, dove tra l’altro conobbi Stravinskij, che aveva diretto il concerto prima del mio nella stagione della Filarmonica”, riferisce il maestro» (Leonetta Bentivoglio). «Fui anche a Salisburgo, dove m’infilai in un palco per un Flauto magico diretto da Karl Böhm. Mi addormentai, per poi svegliarmi terrorizzato di non sapere dove stavo. Mi misi a piangere forte e fui buttato fuori da una maschera furiosa. Quando, una decina d’anni dopo, lavorai con Böhm, gli raccontai l’episodio e lui si offese moltissimo». «Portava ancora i calzoncini corti quando al Festival di Salisburgo venne presentato a Wilhelm Furtwängler, che lo aveva sentito suonare al pianoforte e che lo volle in buca, ospite d’onore per seguire le prove del suo Don Giovanni. E subito dopo lo testò sul podio» (Moreni). «Fu mandato a studiare al Mozarteum di Salisburgo, dove ebbe come maestri Edwin Fischer (pianoforte), Enrico Mainardi (musica da camera) e Igor Markevitch (direzione d’orchestra). Nel ’54 andò a Parigi per studiare composizione con Nadia Boulanger: si formò lì la sua convinzione che il processo ricreativo dell’interpretazione non fosse altro che un cammino a ritroso di quello creativo e che l’esecuzione dovesse saper percorrerne la strada in entrambe le direzioni» (Sergio Sablich). Continuò a frequentare anche l’Italia: nel 1956 si divise tra Siena, dove fu insieme a Claudio Abbado e Zubin Mehta allievo di Carlo Zecchi all’Accademia Chigiana, Roma, dove conseguì il diploma di perfezionamento in pianoforte presso l’Accademia di Santa Cecilia, e Napoli, dove conquistò il primo premio al Concorso Casella, «ma proprio per la mia troppo giovane età il premio mi venne revocato e sostituito con un riconoscimento speciale, che però non mi dava l’opportunità di suonare sul palco del San Carlo». «Cominciò la carriera di solista. Divenne quello che è ancora oggi, uno dei grandi del pianoforte; ma per diventare quello che soprattutto è oggi, ossia un direttore d’orchestra molto affermato, sarebbero dovuti passare ancora alcuni anni; non molti, tuttavia. […] Lei si sente più un direttore o un pianista? E come è avvenuta questa metamorfosi? “Credo che sia avvenuta in modo molto naturale. È stato Edwin Fischer a prospettarmi per primo la possibilità di questa unione. […] Ho cominciato, dietro suo consiglio, a eseguire Mozart dirigendolo dal pianoforte: con la English Chamber Orchestra ho esplorato tutto il territorio classico. Poi ho cominciato a dedicarmi a partiture sinfoniche che escludevano la presenza del pianoforte, come direttore. Debbo molto a Igor Markevitch, che mi ha dato una solida base tecnica, e a tutti quei direttori con cui ho lavorato costantemente da pianista: da Mehta, il mio più grande amico, a Celibidache. […] Ho un ricordo straordinariamente vivo di Furtwängler, a Salisburgo: avevo dodici anni, mi sentì suonare e disse che suonavo come un direttore. Ho collaborato con molti grandi artisti nella musica da camera, che per me era l’attività più bella: di lì è nato il mio amore per le orchestre. Sono stati tutti punti di riferimento importanti. Il desiderio di affrontare le opere di Mozart mi ha spinto verso il teatro, e non mi sono più liberato della sua magia. Wagner è stato una conseguenza, un discorso tuttora aperto. Come vede, il processo ha seguito uno sviluppo graduale e continuo. Ma non ho mai abbandonato il pianoforte. Non potrei fare a meno del contatto diretto con lo strumento, ne ho un bisogno quasi fisico. Non dimentichi che a venticinque anni feci il mio primo ciclo completo delle Sonate di Beethoven, e dieci anni più tardi le avevo già incise tutte due volte. Ho suonato con avidità il repertorio, fino a quando ero nel pieno delle mie forze anche fisiche. Poi ho cominciato a decantarlo, e a ritornare su singoli autori e opere che mi interessava approfondire ulteriormente. Magari perché come direttore avevo maturato nuovi punti di vista, nuove dimensioni interpretative”» (Sablich). «Già negli anni Sessanta suonava come pianista i cinque Concerti di Beethoven diretto da un mostro sacro come Otto Klemperer, per poi dirigere dal podio gli stessi Concerti mentre al pianoforte c’era un interprete leggendario come Arthur Rubinstein» (Bentivoglio). «Da giovane direttore, ha […] un “passato” intensamente mozartiano, con la English Chamber Orchestra, poi con l’Orchestre de Paris (come successore di Georg Solti) negli anni Ottanta. Firma il suo primo Tristan und Isolde a Bayreuth nel 1981, però, insieme, tiene a battesimo dozzine di opere contemporanee: Concerto II di Berio, Notations I di Boulez, la Symphonie di Edison Denisov, Fandango di Henze, Ode pour Jérusalem di Milhaud… […] Con il compianto professor Edward Said, Barenboim ha poi fondato quell’impresa straordinaria che è la West-Eastern Divan Orchestra, […] complesso che riunisce giovani talenti tra i 14 ai 25 anni da Egitto, Israele, Siria, Libano, Giordania e Tunisia. Per i sessant’anni dello Stato di Israele ha fatto suonare fianco a fianco giovani ebrei e palestinesi: l’orchestra della pace» (Gian Mario Benzing). Dal 1992 è direttore musicale del teatro Staatsoper Unter den Linden di Berlino e dell’orchestra Staatskapelle Berlin, della quale nel 2000 è stato nominato direttore a vita. «Alla Riunificazione […] mi proposero di guidare la Staatskapelle, un’orchestra che non avevo mai diretto, a lungo la più pagata della Germania, formata da musicisti che avevano vissuto prima sotto il nazismo e poi sotto la Ddr, e fortunatamente una delle istituzioni meno compromesse con i servizi segreti della Germania Est. Chiesi di fare una prova: il Preludio del Parsifal. Un’esperienza emotiva indimenticabile, perché quello che sentii era il suono con cui ero cresciuto a Tel Aviv, il modo di interpretazione della vecchia Europa che i musicisti ebrei avevano portato negli anni Trenta in Palestina» (a Egle Santolini). Alla fine del 2005, dopo le dimissioni di Riccardo Muti, giunse alla Scala di Milano, divenendone dapprima il primo direttore musicale ospite, per poi assumerne la piena direzione musicale nel 2011, mantenendola per tre anni. «“Sono rimasto in Scala dal 2005 al 2014, continuativamente, con un’arcata di lavoro meravigliosa. Quando sono arrivato, chiamato da Lissner, avevo portato con me la Nona di Beethoven. Ed era la prima volta che ritornavo a dirigere alla Scala, dopo quasi quarant’anni”. […] Barenboim arrivò come un’ondata travolgente su Milano: già dalla prova generale di quella Nona fu entusiasmo immediato, calore, passione. Mozart, Schubert, Beethoven, Wagner, Verdi, Bizet: ogni autore proposto aveva alle spalle una precisa idea esecutiva, faceva parte di una proposta musicalmente soppesata, importante. “Sì, sono stati nove anni non solo di grande qualità, ma anche di continue curiosità: di scambio, tra me e un’orchestra che vedevo sempre interessata. La ricordo ad esempio nel ciclo Schönberg oppure nel Giocatore di Prokofiev. Cioè in autori collocati al di fuori del suo repertorio tradizionale. Eppure erano sempre curiosi. Volevano capire. Trasmettevano una grande sete – proprio una sete – di imparare. Perciò il lavoro alla Scala non valeva solo come normale preparazione di uno spettacolo, ma diventava una costante riflessione sull’esecuzione musicale. Profonda, dialogante”. Dal dicembre 2014, dopo un 7 dicembre con il Fidelio di Beethoven, con le repliche intrecciate all’integrale delle Sonate per pianoforte di Schubert, il Maestro ha detto addio al teatro milanese. Il suo Staatsoper a Berlino lo ha completamente assorbito, contendendolo alle tournée con la sua Divan, la formazione ideale, nata da un progetto condiviso col filosofo Edward Said, che unisce giovani ebrei e palestinesi. In mezzo, i concerti in tutto il mondo al pianoforte, sempre con autori mirati. E adesso, ultima nata in ordine di tempo, anche la scommessa di una nuova sala da concerti, a Berlino, intitolata all’amico Pierre Boulez: la prima stagione, che si aprirà nel prossimo marzo, si intitola programmaticamente Musik für das denkende Ohr, musica per orecchie che sanno e osano pensare. […] “Gli anni scaligeri sono stati per me musicalmente e artisticamente importanti. Penso al legame con l’orchestra, ma anche con il coro. Insieme abbiamo fatto concerti che restano scolpiti, come il Requiem di Verdi, che abbiamo portato in giro per il mondo. Quando uscivo da teatro, dopo le prove, ero contento. E mi sembrava che lo fosse anche Milano. Sentivo persino una certa somiglianza con le mie radici, la mia Buenos Aires. Infatti avevo coniato il motto che l’Argentina è l’unico Paese italiano dove si parla spagnolo”» (Moreni) • Presente a Berlino alla caduta del Muro (9 novembre 1989), la celebrò pochi giorni dopo con uno storico concerto. «“Sono andato a letto in una Berlino divisa in due, mi sono svegliato in una città riunificata. Non riuscivo a credere ai titoli dei giornali: il Muro non c’era più. Ho perfino svegliato mia moglie, che, pensando a una delle mie battute, ha brontolato: lasciami dormire, non sei divertente. […] Quando sono sceso in strada mi sono guardato intorno come si guarda qualcosa mai visto, sono volato alle prove con i Berliner con il cuore pieno di felicità”. E lì è nata l’idea di un evento straordinario. “Un concerto aperto ai cittadini dell’Est. Lo annunciammo per domenica alle 11, ma già dalle 4 del mattino la gente era in fila davanti a quella Philharmonie fino a tre giorni prima così vicina e irraggiungibile. Suonammo la Settima di Beethoven”» (Giuseppina Manin) • Molto controverso, invece, un altro celebre concerto. «Nel 2001, a Gerusalemme, infrangendo un tabù pluridecennale (Wagner era la colonna sonora del nazismo), diresse il Preludio del Tristano e Isotta. “Solo trenta persone, su un pubblico di tremila, abbandonarono la sala. Gli altri seguirono in silenzio. Avevo fatto una premessa all’esecuzione, spiegando i motivi della mia scelta. In molti compresero. Il fatto è che Wagner è un musicista irrinunciabile. Uno dei cinque o sei compositori che hanno segnato l’evoluzione musicale in modo necessario, riflettendo tutto quello che c’è stato prima e condizionando tutto il dopo. Come Bach e Beethoven”. Eppure il nesso con l’antisemitismo resta inevitabile: Wagner, in patria, è stato sempre vissuto come celebrazione dell’identità germanica, e le sue saghe poggiano sulle medesime radici del nazismo. “Lo so bene”, replica Barenboim, “ma non sta qui il problema del fascismo, che inizia quando si dice: solo un tedesco può capire questa musica. E poi l’antisemitismo non è solo Wagner. La Passione secondo Giovanni di Bach è il testo più antisemita che ci sia. Per questo non andrebbe eseguita né ascoltata?”» (Bentivoglio) • Vedovo della violoncellista inglese Jacqueline du Pré (1945-1987), morta prematuramente per una forma particolarmente aggressiva di sclerosi multipla, dal 1988 è sposato in seconde nozze con la pianista russa Elena Dmitrievna Baškirova, con la quale aveva precedentemente intrattenuto una relazione extraconiugale, da cui erano nati i due figli David Arthur (1982), manager musicale di gruppi hip hop, e Michael (1985), violinista • Molto conflittuale il rapporto con la sua seconda patria, Israele. «Per l’opinione pubblica mondiale questo straordinario direttore d’orchestra […] è un emblema della tolleranza ebraica. Ma Barenboim ha rifiutato di prendere parte ai festeggiamenti del 60esimo anniversario di Israele e, nel 2005, durante la firma di un libro che aveva scritto con l’attivista antisraeliano Edward Said, ha rifiutato di essere intervistato da un giornalista per la radio dell’esercito israeliano solo perché ne indossava una uniforme. Nel 2008 Barenboim ha anche ottenuto un passaporto palestinese, un gesto approvato dal governo di unità nazionale guidato da Hamas. Ha dunque promesso fedeltà a un’entità antisemita che cerca di eliminare l’altro Paese di cui Barenboim ha il passaporto: Israele. […] Nel 2005, nel corso di una conferenza alla Columbia University di New York, Barenboim ha paragonato i soldati israeliani ai nazisti. In una intervista a Der Spiegel del 2013, Barenboim ha detto di non voler essere chiamato israeliano: “Di cosa c’è da essere orgogliosi oggi? Come puoi essere il patriota di un Paese che ha occupato un territorio straniero per quarantacinque anni?”» (Giulio Meotti) • «Il capitalismo non può essere l’unica risposta alla fine del comunismo. Non sono mai stato comunista, e so bene che la caduta del Muro di Berlino ha restituito la libertà a milioni di persone. Dopo quel crollo, tuttavia, l’Occidente ha preso a nuotare in un pericoloso mare di autocompiacimento e trionfalismo, di cui stiamo pagando le conseguenze. […] Ora si è perso ogni bilanciamento, con esiti atroci. L’11 settembre non sarebbe avvenuto se ci fosse stata l’Unione Sovietica. Nella bipolarità simmetrica è più facile controllare i rispettivi interessi» • «Nel suo concetto di morale, di libertà, si sente l’influenza dell’Etica di Spinoza. Un libro che si porta sempre dietro, la sua laicissima bibbia. "Spinoza è stato il mio maestro, è la forma del mio pensiero"» (Riccardo Lenzi) • «Il Maestro ha affinato una formidabile sensibilità nell’educare i giovani, assieme alle capacità di talent scout. Grazie a lui, come ha ricordato Cecilia Bartoli, […] la cantante ha scoperto le proprie affinità mozartiane. Grazie a lui la carriera di Lang Lang ha spiccato il volo. E Antonio Pappano, che arrivò umilmente a Berlino per accompagnare una cantante in un’audizione, poté iniziare la carriera di direttore come suo assistente a Bayreuth. Ha insomma l’orecchio per capire dove sia il talento» (Lenzi) • «La poeticità e il rigore delle Sonate per pianoforte o la “verticalità”, come scrisse Girardi, di certe Sinfonie di Beethoven da lui eseguite sono una pietra miliare nella storia dell’interpretazione del Romanticismo tedesco; la maestosità e la chiarezza strutturale del suo Bruckner, altra integrale, sono state per molti la via regia per approfondire o anche per scoprire la cifra più autentica del monolitico sinfonista di Ansfelden. La Winterreise di Schubert incisa con Fischer-Dieskau al culmine della prestanza e della profondità, così scheggiata e disperata, è ormai quasi un paradigma» (Benzing). «Barenboim non rappresenta l’eredità di una nazione, di una scuola nazionale, bensì l’eredità dell’Occidente. […] La sua straordinaria arte pianistica, dotata di genialità tecnica e di profonda malinconia poetica, risplende non soltanto nella letteratura per pianoforte, ma anche nei Lieder, un terreno mirabile in cui egli rinnova la grandezza di Gerald Moore» (Quirino Principe) • «Quello con il pianoforte è un contatto diretto, molto fisico col suono. E, se per un verso, lavorando con l’orchestra, cerco di trasferire i miei pensieri su un particolare mondo sonoro conquistati attraverso il mio rapporto concreto con la tastiera, per l’altro verso, in quanto direttore, posso dare a me stesso, come strumentista, un’idea polifonica molto chiara della musica che eseguo». «La direzione d’orchestra impone un lavoro minuzioso, a partire dall’osservazione di quel fenomeno prettamente fisico che è il suono. Niente metafisica: tutto è molto concreto, come un laboratorio» • «Sarebbe stupido e demagogico se dicessi: io non posso vivere senza la musica. L’uomo, anche se gli tolgono le cose a cui più tiene, continua a vivere, a sognare e ad amare. Però a me la musica dà tutto: il materiale per il pensiero; la soddisfazione emotiva; la possibilità di sentire le cose che non si possono sentire nel mondo reale, ad esempio la morte. Ogni suono che diventa silenzio è una piccola morte. Con la musica abbiamo la possibilità di vivere esperienze altrimenti impensabili» (a Wlodek Goldkorn). «Che cosa mi spaventerebbe di più? Non poter dirigere le opere di Mozart. Morirei solo all’idea. Tutto è cominciato di lì, lì tutto finirà: la vita è tutto ciò che Mozart ha messo nelle sue opere» • «Impossibile chiedermi cosa avrei fatto nella vita se non il musicista. È come se mi si domandasse se ho mai pensato di essere una donna. […] Fare musica, per me, è come respirare, e non ho mai avvertito niente di prodigioso in questo. È stato il mio modo di essere da sempre. Niente di esagerato, stregato o innaturale. Da ragazzino frequentavo la scuola come gli altri, avevo amici della mia età, il pomeriggio giocavo a calcio. Poi facevo una doccia, mi vestivo e andavo a suonare il pianoforte in un concerto di fronte al pubblico. Così, come una parte normale della mia giornata. […] Spesso i bambini prodigio diventano adulti pieni di problemi. Invece io, che davo concerti a sette anni, non sono affatto problematico. Forse perché quand’ero bambino non mi sentivo un prodigio, e adesso sono rimasto un bambino senza più prodigi». «Ho detto ai miei figli: “Fermatemi quando è ora. Non vorrei mai che vi dicessero con una certa faccia: eh, ho sentito vostro padre, l’altra sera…”. Credo che, su quest’argomento, avesse ragione Arthur Rubinstein. Diceva che non s’invecchia bene con i “se”: se avessi una moglie più giovane, se avessi più soldi… S’invecchia bene accettando con gioia quello che non si può cambiare».