Kidding viene descritta come “commedia”, ma c’è più sofferenza che risate, vero?
«Direi di sì, ma cerco sempre di ridermi addosso. C’è troppo casino nella testa, se non ridi sei spacciato. Questa è una storia che mi permette di esprimere parti di me stesso e del mio strano tragitto di attore e artista e figura pubblica, se volete. Una traiettoria da missile impazzito, per fortuna atterrato senza troppi danni, come la Soyuz qualche settimana fa».
Perché ha scelto questo progetto?
«È il progetto che è venuto da me, in un momento forse propizio, dopo tanti problemi mentali. Insomma, non ero più nel laghetto dei girini, ero in fondo alla Fossa della Marianne e non potevo più stare lì. E questo copione mi ha trovato perché sa che posso esprimerlo».
La serie parla di quanto sia difficile mostrare gentilezza e bontà.
«Non è un segreto che la bontà venga dalle persone, dai singoli soggetti, non è un concetto astratto o un archetipo junghiano. La gentilezza non è una cosa tangibile che ti mettono nelle mani e ti dicono: ecco, falla vedere. La bontà viene dai soggetti sensibili. Quando facevo stand up comedy nei club e nei teatri facevo ridere coi miei trucchi e la mia comicità fisica; ma quando dici la verità, quando tocchi un nervo scoperto nella gente, qualcosa che tutti vorrebbero esprimere ma non sanno come fare, ecco, è una cosa molto potente. Cosa c’entra con la sua domanda? Non ne ho idea!».
Molti attori odiano il termine "ritorno". Anche lei?
«Non so, questa serie tv segna un ritorno perché non mi considero più parte del business; so che potrà suonare strano, ma a lungo mi sono sentito davvero come Truman sulla porta di casa che dice a se stesso "non ho più voglia di continuare a fare questo", non mi interessa la fama, non ho bisogno di comprarmi un’altra casa. Ora è così: l’unica cosa che mi interessa è quello che sto dicendo, quello che sto facendo, cosa sto cercando di fare. Cioè, se pure Kidding diventa un grande successo di pubblico, sempre fuori dal business rimango. Ritorno, non ritorno, che ne so, non fanno più parte della mia visione del mondo. E mi sa che si sta meglio ai margini della società. Meno pressioni».
Le manca la barba dietro cui si nascondeva?
«No, è stato bello disfarsene, mi sento più leggero. Ci ho messo dieci minuti, zac, e sotto la pelle era bianchiccia e rossiccia. Ma mi piaceva avere la barba, dava molto da fare. Una divertente perdita di tempo. E ha ragione, mi serviva in parte per nascondermi».
Lei è anche un pittore e scultore. Come si concilia con la recitazione?
«Per me è tutto la stessa cosa, recitazione, scultura, pittura. Quando costruisco un personaggio è come una scultura o un ritratto su tela. Non c’è differenza. È come manifesti quell’essenza con certi strumenti e certi gesti. A meno che non stai facendo un’imitazione e ti ci perdi dentro come ho fatto con Andy Kaufman. Mi spiego?».
Lei sognava di diventare ricco e famoso, lo è diventato ed è caduto in depressione. Come ha affrontato quei demoni?
«Li affronto in vari modi, a volte fuggendo, a volte affrontandoli. Per me tutte le esperienze che mi sono capitate mi hanno aiutato a capire cosa è buono per me. Tutti cerchiamo di difenderci e arrivare alla fine del round».
Jim Carrey oggi chi è?
«Eccitato al punto giusto — senza smaniare, ho già abbastanza manie — e soddisfatto».