Mettersi in cammino senza perdere il contatto con le proprie radici, con luoghi e affetti segnati dalla malinconia di un passato perduto. E così la scrittura, talvolta incerta e frammentata, diventa un ponte, una via di comunicazione, un appiglio prezioso contro paure e incertezze. Quella straordinaria riserva di memorie che è l’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano conserva oltre mille documenti riconducibili all’esperienza dell’emigrazione italiana. Un volume ne ha presentato una selezione (Amoreno Martellini, Abasso di un firmamento sconosciuto. Un secolo di emigrazione italiana nelle fonti autonarrative, Mulino, 2018) con la convinzione (e la speranza) che «le nuove dinamiche del dramma migratorio possano restituire centralità alla storia degli emigranti italiani». «Per aprire gli occhi bisogna camminare il mondo», scrive un italiano emigrato in Argentina quasi un secolo fa. Conoscenza come consapevolezza: un piccolo grande messaggio contro vecchie e nuove intolleranze.
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I racconti
• Diletto Manzini (nato a Firenze nel 1850, emigrato in Brasile alla fine dell’Ottocento)
Credi, carina mia, molti vengono qua nel Brasile pieni d’illusioni, pensando che arrivati qui possano trovare subito impieghi o che so io. Qui nel Brasile, se qualcuno ti domanda qualche cosa, gli devi rispondere che ce molto da fare, ma solo per chi ha braccia buone per lavorare la terra. I contadini fanno benissimo a venir qua, ma chi non è capace a lavorare la terra facilmente tornano a patire fame e spessissimo a morire negli ospedali. […] A me spessissimo mi giunge lettere d’Italia di tanti chiedendomi di venire qua e io sai cosa faccio? Alla maggior parte non gli rispondo, figurando così non aver ricevuto la lettera.
• Carlo Tratto (nato a Taranto nel 1924 espatriato in Francia nel 1947)
Al mattino seguente di buon’ora mio padre già anziano mi accompagnò egli stesso alla stazione ferroviaria, dove sul marciapiedi del binario sostavano centinaia di giovani soli, pronti ad allontanarsi, per alleggerire alla città il peso dei senza occupati, portandosi nel cuore il calore degli affetti famigliari e dei ricordi più cari. Era il primo convoglio ad andarsene dalla città, altri ne seguirono più distanziati nel tempo. Alle 6.00 precise del 7 maggio, il treno emigrante voluto dalla prima Repubblica del dopoguerra, si avviò lentamente per andare a fare capolinea a Torino, per poi proseguire oltre confine verso il futuro lavoro, volendo tutti sottrarsi da quell’incantesimo di miseria in cui si era stati legati. […] Ero al finestrino, quando il treno si era già allontanato di circa 200 metri, mentre vidi mio padre girarsi di spalle per non farsi vedere da me piangere.
• Francesco Ibba (nato in provincia di Oristano, espatriato clandestinamente in Francia nel 1947)
Sapevamo che in Francia era iniziata la ricostruzione ed avevano bisogno di molta manodopera e che da Bardonecchia si poteva passare clandestinamente pagando una certa somma alle guide che ci avrebbero accompagnato fino alla frontiera. [...] Dovevamo partire all’improvviso, senza che nessuno sapesse niente e seguire la via clandestina di Bardonecchia. […]Verso l’imbrunire arrivarono le guide, il prezzo da pagare era di mille lire, cinquecento prima della partenza ed il resto appena varcato il confine con la Francia.
Il percorso non era per niente facile, dovevamo salire sulle montagne fino a duemila metri, in fila indiana ed in silenzio. Il gruppo di clandestini era di venti persone. Verso le quattro del mattino, dopo aver camminato per quindici chilometri, stanchi ed ansiosi perché andavamo incontro ad una nuova vita piena d’avventura, finì la salita e ci trovammo in territorio francese.
• Giuseppe Melchiorre (abruzzese emigrato nelle miniere del Belgio nel 1946, a 25 anni)
Non tutti riuscivano a sopportare quel tipo di lavoro; inoltre la paga, settimanale, era piena di trattenute e i soldi che ci davano a malapena erano sufficienti per vivere. Il rischio di incidenti, poi, era grandissimo: non c’era giorno che non ci scappassero dei morti. […] Gli operai che lasciavano il lavoro erano tanti, e altrettanti quelli che arrivavano. Bastava che per due giorni uno non si presentasse sul posto di lavoro che subito arrivavano i gendarmi a chiedere il motivo, se si voleva per esempio cambiare miniera; se uno poi chiedeva il posto in superficie, i gendarmi rispondevano che quello era per i Belgi, che avevano già fatto trent’anni in miniera. Quelli che decidevano di non tornare in miniera venivano rispediti a casa con delle tradotte, insieme al carbone.
• Antonio Sbirzola (nato nel 1942 in Sicilia, emigrato in Australia nel 1961)
Siamo nel mese di ottobre, e un giorno che il mare e imovimento, e piove tutti antiamo accasa legento il giornale, e affiango a me ce il signor Miraglia che per sbaglio viagiamo insieme. Vede, un articolo, mi dice Antonio cosa dice per lemigrazione per L’australia, legerlo per me. Lo lego e ce lo spiego, che in Australia cercano della mano d’opera, manuali e specializzati. Che si devono presentarsi alluficio del’lavoro per fare la domanta di emigrare., però lui lo sa che sua figlia non vuole emigrare alle- stero. Arriviamo a Caricamento lui scente e io continuo il percorso. Vado direttamente alluficio di Collocamento, chiedo il modulo di emigrare. Mi da una busta. [...] Zio rienpe il modulo che sono tre, e zio si prenterà la risponzabilita, e lo firma con un sorriso non allegro, e firmo pure io. Lo ringrazio e lo porto subito alluficio di collocamento, non perdo tempo. [...] E il 19 di novembre mi a arrivato la lettera della anbasciata Australiana che devo antare a passare la visita di controllo.