la Repubblica, 7 novembre 2018
Dolomiti, animali uccisi o in fuga: il maltempo come l’era glaciale
ASIAGO (VICENZA) La foresta di peccio cresciuta cent’anni fa sopra le trincee della Grande guerra copre gli ossari degli alpini italiani e dei Kaiserjaeger asburgici. Il silenzio è assoluto, la nebbia porta un forte odore balsamico, la costa della montagna rasata è deserta. Giovanni Rigoni, forestale di Asiago, sposta i rami di un abete schiantato e indica una catasta di piante. «Qui – dice – da secoli c’era l’arena dei galli cedroni in amore. Non esiste più e gli urogalli sono già scomparsi».
Sulle Alpi venete, friulane, trentine e altoatesine l’uragano che ha spazzato via 40 mila ettari di bosco e oltre 7 milioni di piante rivela oggi una distruzione e una rivoluzione senza precedenti anche per il mondo animale. Migliaia di mammiferi, di uccelli e di pesci sono stati uccisi dalla bufera.
Chi è sopravvissuto adesso è in fuga, spaventato e disorientato, o spinto dalla fame verso zone praticabili e ancora adatte alla vita. «Sull’Altopiano di Asiago – spiega Rigoni – superfici immense non hanno più un cervo. La strage emergerà appena sarà possibile raggiungere le valli interrotte.
Branchi di animali compaiono invece al limite dei paesi, o nel Feltrino, dove di solito arrivano tra un mese». Mentre gli umani lottano per ricostruire case e strade, le bestie combattono per sopravvivere in un ambiente sconvolto, come in un esodo da era glaciale. Dalla foresta di Paneveggio al Cansiglio, dalle abetaie dell’Agordino e del Comelico alle laricete miste di Alta Pusteria e Carnia, la fauna selvatica delle Dolomiti risulta decimata, o impegnata in una migrazione storica verso aree scampate all’apocalisse. Gli animali avvertono l’avvicinarsi dell’inverno e anche alle quote più alte abbandonano i costoni privati della vegetazione: sanno che presto valanghe di neve precipiteranno nelle gole nuove, scavate dalle frane.
«Il disastro – dice Paolo Pedrini, responsabile dell’équipe di zoologi del Museo di Scienze naturali di Trento – è stato causato da velocità e forza del ciclone. Uccelli e mammiferi, sorpresi da un evento ignoto e notturno, non hanno avuto il tempo di scappare. Il vento, la caduta improvvisa e di massa degli alberi hanno travolto picchi, civette, allocchi, astori, galli cedroni e forcelli, francolini, nottole, scoiattoli e pipistrelli. Piante e frane si sono abbattute su cervi, caprioli e cinghiali, ma in parte anche su lepri e volpi, che scavano la tana nella terra. Si sono salvati i camosci, ancora sopra la vegetazione per la stagione degli amori: per questi i pericoli sono rinviati all’inverno». La Val Visdende, nell’alto Cadore, è rimasta senza animali. Dentro i tronchi volati nella diga del Comelico nidificavano picchi rossi e civette capogrosso. Le fronde degli abeti ospitavano i passeracei migratori verso l’Africa, in sosta per nutrirsi di semi. Le radure cancellate erano la dimora dei volatili stanziali.
Nel sottobosco si nascondevano gli ungulati. «La vita animale delle Dolomiti – avverte Francesco Mezzavilla, biologo trevigiano tra i massimi esperti di fauna di montagna – nelle aree colpite è stata azzerata.
Senza alberi gli animali alpini non possono vivere, terreno e microclimi cambiano. Ci vorrà un secolo, il tempo di ricrescita di una foresta, per poter ricostruire una catena alimentare completa. Se la natura fosse un palazzo, è come se fosse crollato per un terremoto. Il risultato ricorda i territori del Nord America inceneriti dagli incendi. Per le specie pioniere, dagli insetti ai piccoli carnivori, si aprono nicchie di opportunità. Ma la popolazione umana contemporanea non rivedrà l’universo alpino in cui è cresciuta». La gente di montagna, senza i suoi animali fuggiti e le sue foreste cadute, all’improvviso si sente orfana.
Migliaia le persone che nel Bellunese tentano invano di raggiungere luoghi famigliari divenuti inaccessibili. «Per la biodiversità – dice Andrea Favaretto, ornitologo della stazione Ispra nel Cansiglio – è un crollo. Il problema, però, ora è quantificarlo e studiare i mutamenti innescati. Sicuramente cervi e caprioli stanno subendo un’inedita migrazione. Gli insetti xilofagi e gli uccelli che se ne nutrono, come le aquile che in inverno mangiano carcasse, si concentreranno lungo i pendii sconvolti. La fase di assestamento durerà decenni e restituirà una biologia dolomitica rivoluzionata, che ovviamente ha un impatto anche sull’uomo». Carabinieri forestali e scienziati sono al lavoro per i censimenti, ostacolati dai cumuli di tronchi da recuperare. Centinaia anche i cacciatori mobilitati per segnalare capi uccisi, movimenti di branchi e stormi sopravvissuti.
«Per ora – dice Maria Cristina Caretta, presidente dei cacciatori del Veneto – non sono documentate ecatombi. Conteremo vittime e migrazioni d’opportunità, ma per avere numeri servono mesi e terreni ripuliti. I cervi invaderanno i pascoli per nutrirsi, ritardando i rimboschimenti. Molti animali, grazie a una percezione del pericolo anticipata e prodigiosa, si sono salvati». Giuseppe Del Zenero, però, da una settimana tiene il binocolo puntato sul bosco travolto sopra Alleghe e indica una valletta. «Dopo il tramonto – racconta – passavano decine di caprioli. Ho trascorso una vita a guardarli, con mio nonno e con mio padre. Non se ne vede più uno, come dopo una grande nevicata. Chissà dove sono finiti». Sulle Dolomiti è come un lutto: solo le foreste e gli animali non avevano mai tradito.