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 2018  novembre 07 Mercoledì calendario

Intervista a Roberto Vecchioni

Lì per lì precisa subito: «Io non mi ritiro di certo, credo di essere molto giovane e ho bisogno di quarant’anni ancora». Poi Roberto Vecchioni parla del suo primo disco da cinque anni a questa parte. E lo fa alla sua maniera, torrenziale e fascinosa, in un meraviglioso teatrino in centro a Milano, il Gerolamo a pochi passi dal Duomo. «L’infinito è un disco che si comprerà nei negozi perché esce solo in forma di cd e vinile, non andrà nell’aria, non sarà in streaming, non possiamo continuare a spezzettare le vite delle persone una canzone alla volta». Alla faccia dei suoi 75 anni, Vecchioni ha ancora i carati dell’adolescente che si indigna e che ha voglia di scoprire qualcos’altro. Stavolta è l’ottimismo di Leopardi, pensate un po’, e la debolezza del destino: «Sì in effetti il primo singolo Ti insegnerò a volare è la sconfessione del significato del disco Samarcanda del 1977. Dice, in sostanza: «Destino sei una merda, ti batto quando voglio».
In effetti, Roberto Vecchioni, il testo parla chiaro.
«È ispirato alla vicenda di Alex Zanardi e vuole descrivere la passione per la vita che è più forte del destino. Chi se ne fotte se non posso correre o camminare: imparerò a volare».
Alla terza strofa si riconosce un’altra voce, quella voce.
«Ho fatto una fatica enorme a tirare fuori dalla sua tana dopo sette anni quell’orso di Francesco Guccini. Sono andato sotto la pioggia fino a Pavana per fargli sentire il disco. Dopo si è alzato, mi ha abbracciato dicendomi in questo disco io voglio esserci. Ormai assomiglia a Nero Wolfe, si sposta al massimo dalla cucina al salotto senza tornare indietro ma rimane il più grande. E ripenso alla prima volta che ci siamo incontrati».
Ossia?
«Sanremo, anni Settanta. Entro nell’hotel Des Etrangers. Rambaldi, il fondatore del Premio Tenco, mi presenta questo sterminato personaggio, Guccini, che mi fa: Ah sì, ho sentito una tua bella canzone su di uno stadio e una partita di calcio. Stava sfottendo Luci a San Siro. Gli ho risposto: Sì, anche quella tua del trenino che va a schiantarsi non è male. (Parla della Locomotiva – ndr) Poi lui con una bottiglia di bourbon e io una di whisky siamo andati in giro a fotografare Sanremo. Beh, le foto sono venute un po’ sbilenche...».
Poi avete fatto grande la canzone d’autore.
«Abbiamo indagato, esagerando con le parole e pretendendo un po’ troppo da noi. Talvolta scrivevo le canzoni e poi non capivo neanche che cosa avevo scritto».
E la canzone d’autore oggi?
«Diciamo che mi interessa ma non mi piace. Il Duemila non è il secolo dell’arte. Trovatemi dieci titoli di libri, dischi e film degli anni Duemila più belli di quelli del Novecento. Io a fatica ne trovo uno».
Sembra nostalgico.
«No tutt’altro, questo disco è invece una conclusione per me. Dopo decenni nei quali mi sono posto domande, stavolta mi do una risposta. Citando Calvino, giriamo con una valigia pesantissima dentro il quale c’è il significato del mistero in cui transitiamo, ma non possiamo aprirla. Ora mi sono reso conto che il senso del nostro esistere è la vita. La vita come insieme di cose vissute. Perciò dico anche ai giovani: smettiamo di piangerci addosso, la vita è straordinaria nella sua malignità e nella sua dolcezza».
Il suo disco è anche una galleria di personaggi. Da Ayse Deniz morta per mano dell’Isis a Giacomo Leopardi, non a caso il disco si intitola L’infinito.
«In questa canzone, il poeta è a Napoli alla fine della sua vita e, in quell’atmosfera, era come se chiedesse tregua al suo dolore. Non a caso, negli ultimi versi che ha scritto ha usato la parola sole, mai usata prima. Dopo la notte, fa sorgere il sole, ossia la speranza, la luce. Insomma, ho cercato la persona più lontana possibile dall’amore per la vita ed è venuta fuori la canzone più importante della mia vita».
Nel brano Com’è lunga la notte canta anche Morgan.
«È come se fosse mio figlio, ha iniziato a scrivere canzoni dopo che suo padre lo ha portato a un mio concerto».
E c’è anche Formidabili quegli anni.
«E ringrazio Mario Capanna di avermi concesso questa sua storica definizione. In quel brano c’è il mio ’68 ma non è una canzone politica, ma racconta i miei sogni di quando dicevamo di essere compagni e non vivevamo come oggi nell’Universo 2, quello nel quale siamo chiusi in casa con la pistola per paura degli immigrati».
In Parola c’è un’altra paura.
«È una sorta di elegia sulla morte della parola, che avrei cantato volentieri con Ivano Fossati. I ragazzi di oggi hanno un patrimonio di 600 parole. Dieci anni fa erano 5000, vi rendete conto?».