il Giornale, 7 novembre 2018
L’ansia è femmina
Vi sentite spossati, depressi, soffrite di mal di testa e attacchi di panico, faticate a dormire la notte e la memoria vi sfugge, siete soggetti a variazioni di peso e vi cadono perfino i capelli? Tranquilli, siete in foltissima compagnia, perché queste sono solo alcune delle molteplici forme in cui si manifesta lo stress. Il «male del XXI secolo» – la definizione è dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – come è giusto che sia ha oggi la sua doverosa giornata di sensibilizzazione, volta a mettere al corrente dei rischi causati dal suo eccesso, istituita dall’International Stress Management Association (che ha sede nella stressatissima Londra).
In effetti tra vita e lavoro, e bilanciamento dei due (non a caso sono le donne a essere più colpite), eventi geopolitici e catastrofi naturali, l’ansia dilaga: secondo Assosalute hanno sofferto di disturbi legati allo stress nell’ultimo semestre quasi 9 italiani su 10 (l’85%). E l’epidemia non accenna a placarsi, anzi: un’indagine dell’American Psychiatric Association ha certificato un aumento del 40% dei livelli di stress nella popolazione lo scorso anno e l’Anxiety and Depression Association of America registra un disturbo d’ansia a 40 milioni di americani.
Ci dice molte cose il significato del termine inglese «stress», che indica tensione e concentrazione, ma anche la massima torsione raggiunta da un cavo prima di spezzarsi. È un’immagine eloquente, che dà l’idea di quanto lo stress possa nuocere, ma anche di quanto possa diventare l’alleato migliore per agire nelle situazioni più impegnative e difficili. Perché è una reazione del nostro organismo che serve proprio a questo: se non esistesse rischieremmo di vivere in uno stato di perenne apatia. Fu un endocrinologo canadese, Hans Seyle, a individuare tale meccanismo negli anni Trenta del secolo scorso definendo lo stress come «una risposta non specifica dell’organismo a tutte le domande che gli vengono poste».
Un meccanismo risalente alla preistoria. Resta il fatto che oggi, in assenza di savane e belve feroci da cui fuggire, è il luogo di lavoro il campo «privilegiato» in cui lo stress si manifesta in tutta la sua intensità. Secondo uno studio del Center for Emotional Intelligence e del Child Study Center dell’Università di Yale e dell’Università di Lipsia un lavoratore su cinque è a rischio di burnout, o «esaurimento da lavoro», che è la risposta violenta a uno stress psico-fisico cronico e persistente.
«Le condizioni di lavoro in cui viviamo favoriscono conflittualità e ansia, sintomi che si manifestano attraverso disturbi come mancanza di respiro, irritabilità, scoppi momentanei di rabbia seguita spesso da sensi di colpa rispetto ai propri comportamenti e fissità di pensiero su situazioni e persone» spiega la Master Certified Coach Marina Osnaghi, che ha affiancato imprenditori e professionisti nel raggiungimento dei loro obiettivi.
Le radici della nostra fragilità a questo logorio, però, risiedono anche nelle prospettive da cui si guarda la vita. «Una delle ragioni più grandi di stress e conflitto è l’errore: i comportamenti sbagliati, veri o presunti, personali o di altri, sono alla radice di moltissimi stati di tensione che esplodono poi nella relazione. Ma su questo si può intervenire attraverso uno strumento del coaching, «le domande potenti», che aiuta a ridurre lo stress dando un preciso contesto all’errore e trovando risposte e soluzioni concrete».