Corriere della Sera, 7 novembre 2018
Per Tim Robbins a Hollwood si girano solo «film fatti da ricchi che parlano di ricchi»
«Basta con la cultura d’élite, basta con i circoli ristretti di chi concepisce e fa spettacolo su storie elitarie. Il teatro e soprattutto il cinema devono tornare a raccontare le storie della gente in difficoltà, le persone deboli, umili che vivono ai margini della società». È un fiume in piena Tim Robbins sul podio del Salone dei Cinquecento a Firenze, ospite del Comune e della Fondazione Teatro della Toscana nell’ambito della manifestazione «Unity in Diversity» che ha riunito i sindaci dei capoluoghi europei che sono stati Capitali europee della cultura.
L’attore Premio Oscar sarà infatti uno dei maestri della scena internazionale che nei prossimi mesi condurrà dei laboratori di formazione per giovani allievi di teatro.
«L’arte – esordisce – non può avere solo lo scopo di intrattenere, di divertire, secondo me ha la forza di galvanizzare il pensiero e di provocare l’azione».
Per esempio?
«Il mio attuale spettacolo, Rifugiati, che ha debuttato a Los Angeles ma sta partendo per una tournée nel mondo, è interpretato da 12 attori di diverse nazionalità. Sono tutti figli di migranti o migranti essi stessi e raccontano le dolorose, difficili vicende della migrazione dal 1865 a oggi. Descrivono le tragedie dei Paesi che hanno lasciato, le radici e le proprie famiglie che hanno dovuto abbandonare in attesa dei famosi barconi... le difficoltà che hanno incontrato per inserirsi in culture differenti dalla loro. E soprattutto dimostrano la loro grande dignità».
Uno spettacolo, insomma, che nasce in un’America che proprio in queste ore teme di essere invasa da un popolo di migranti. Una provocazione?
«Lo sento come un dovere. Noi americani siamo tutti stati dei migranti, profughi, rifugiati e quella del presidente Trump è cinica manipolazione che si rivolge alla pancia di una parte di elettori che ha paura degli immigrati, li considera gente che vuole rubarci la casa, la moglie, i soldi, il lavoro... Niente di tutto ciò è vero, è solo il capro espiatorio dietro cui si nasconde ben altro, una vera e propria deriva fascista. Sono solo persone che scappano da orrori e che cercano asilo. E in America esiste il diritto d’asilo. Purtroppo ho saputo che anche da voi in Italia sta prendendo piede una politica di questo genere, ne sono scioccato. Solo tre anni fa ero in tour qui con dei concerti e avevo visto un Paese diverso, molto solidale con i diversi».
Lei è da oltre trent’anni impegnato sul fronte dei diversi, con il gruppo che ha fondato in California, The Actors’ Gang, di cui è direttore artistico e continua a portare il teatro nel disagio sociale, nelle carceri, nelle scuole con laboratori e seminari di formazione.
«Un impegno vitale per me, una passione e non potrei farne a meno. Nelle prigioni dove abbiamo lavorato con i detenuti, siamo riusciti a far convivere addirittura delle bande rivali, persone indurite dalle pene detentive che invece si sono sciolte e hanno provato il piacere della condivisione attraverso l’espressione artistica, e l’empatia che ho visto nei loro sguardi e in quelli dei loro ex nemici mi ha ripagato in pieno di ogni mio sforzo. Basti dire che molti di loro, dopo aver partecipato ai nostri laboratori hanno persino diminuito sensibilmente la loro attitudine alle attività delinquenziali. Per me una vittoria».
Ma Tim Robbins è anche un attore hollywoodiano...
«Certo, ma è un mondo che non condivido molto. È molto difficile realizzare film di qualità su storie che mi interessano. Quelli che girano sono fatti da ricchi che parlano di ricchi. Se a volte vengo coinvolto è soprattutto perché pagano bene e i soldi mi servono per fare altro».
Qual è un sogno artistico che vorrebbe realizzare?
«Una messinscena della Commedia dell’Arte che parli dell’oggi».
Perché?
«Perché i vostri Arlecchino, Brighella, Pantalone raccontavano alle persone semplici le loro storie, prendendo di mira e sbeffeggiando i potenti. Erano spettacoli coraggiosi che si facevano per strada e non solo nei ricchi palazzi dell’epoca».
Ha mai pensato di scendere in politica?
«No, perché sarei costretto a dei compromessi. Preferisco il teatro, mi sento più libero».