la Repubblica, 6 novembre 2018
Paolo Pellegrin si racconta
"La mia fotografia è una lotta continua per riuscire ad estrarre volti e figure dal buio, trovare un taglio di luce. Da questa battaglia nasce la mia fascinazione per l’ombra, quell’equilibrio precario che può durare un istante. Ho passato le domeniche della mia infanzia ad andare con mio padre, architetto come mia madre, a vedere Bernini, Borromini, Michelangelo, Caravaggio. Ci trascinava in una sorta di educazione continua. Poi la differenza l’ha fatta il mio fotografo preferito, quello che ho guardato con più attenzione, Gilles Peress: diceva che lo sguardo, oltre ad essere esperienza, cultura e esercizio è anche il riflesso del dato fisico. Io sono astigmatico e le mie inquadrature dislocate sono figlie del dato fisiologico. Così io, che sono un grande miope e ho anche tanti e seri problemi di vista, compreso il glaucoma, immagino sempre il mondo come scuro, in cui il mio ruolo, il mio intervento è una lotta fisica per estrarre un volto dal nero”.
L’immagine che vedete qui sopra ne è l’esempio di scuola, fa parte di una serie di ritratti scattati a Tokyo nel 2010 fuori da una fermata della metropolitana, stampati su una carta giapponese, una carta di riso molto leggera che crea un effetto di trasparente evanescenza. “Li coglievo mentre salivano dalle scale, nel momento esatto in cui l’ombra e la luce si incontrano. Ritratti da lontano, con un’ottica lunga, un teleobiettivo, il contrario della mia tradizione che si è sempre fedelmente conformata alla frase di Robert Capa: ’Se le tue foto non sono abbastanza buone è perché non eri abbastanza vicino’”.
Paolo Pellegrin ha 54 anni ma appare sempre come un ragazzo che rotola da una parte all’altra del mondo, saranno i suoi capelli incolti, sarà che ha un modo di parlare frantumato, interrotto continuamente dalla ricerca della parola precisa. Nel suo lavoro e nel suo modo di raccontarlo si percepisce quella fatica di esattezza che si trova nei libri di Beppe Fenoglio, autore che procedeva per sottrazione, asciugando il testo alla sua essenza. “Per anni ho fatto un tipo di ricerca compositiva, ad aggiungere. Partendo dal rettangolo dato, il campo d’azione, io che ho impressi nella memoria Koudelka e Peress, cercavo inquadrature complesse, lavorando sui diversi piani, lottando con il limite della fotografia, cercando di dargli la terza dimensione. Volevo che nella stessa immagine succedessero più cose, ci fossero due elementi narrativi, punti diversi di attenzione. Con l’età, invece, ho sempre di più la percezione che la fotografia è la somma di chi siamo in quel momento. Serve a dare voce a un punto di vista, a un pensiero. Dopo aver ragionato e lavorato tanto, più di trent’anni, mi trovo a fare una ricerca opposta, per sottrazione, una fotografia come una scultura in cui si deve scavare e togliere tutto ciò che non è essenziale. Come il gesto di un calligrafo giapponese o un taglio di Fontana. È per questo che mi piace così tanto il Giappone, il Paese più elegante che ci sia, ogni gesto è essenziale e frutto di un lavoro enorme di pulizia. Ecco, il gesto unico, è la cosa che oggi cerco di più nel mio lavoro”.
La biografia di Paolo Pellegrin si potrebbe racchiudere nell’elenco delle guerre, delle migrazioni, delle carestie, della serie di reportage che ha fatto, a partire dal Kosovo, il lavoro del 1999 che considera per dirla con Conrad la sua “linea d’ombra”, il momento che lo definisce e lo fa diventare un fotografo adulto, anche se aveva già 35 anni. Il lavoro che lo fa entrare all’Agenzia Magnum. La sua biografia potrebbe stare nell’elenco mostruoso dei premi: dieci World Press Photo Award e riconoscimenti come l’Eugene Smith Grant in Humanistic Photography e la Robert Capa Gold Medal Award. Ma a colpire, nel momento in cui le sue fotografie diventano una grande mostra in un museo vocato all’arte contemporanea come il Maxxi, è la consistenza del suo lavoro. La continuità, la progressione, la costanza. Una carriera in cui non ci sono scorciatoie, nessun cedimento agli effetti speciali ma tanta fatica e il passo del maratoneta. “È il primo anno in cui mi fermo per riflettere, mettere ordine e guardare indietro. Ho dovuto decidere cosa mostrare, fare scelte radicali”. Quella che colpisce di più, in un fotografo famoso per i suo reportage a Gaza e Beirut, in Iraq, Siria o Afghanistan è la sublimazione del conflitto, trattato una sola volta con una grande parete dedicata alla battaglia contro l’Isis per la liberazione di Mosul.
Nella scelta delle oltre 150 foto in mostra si sente la mano di un curatore come lo storico dell’arte Germano Celant, che non arrivando dal fotogiornalismo ha dato una chiave di lettura nuova al l lavoro di Pellegrin. “Partiamo da ambiti diversi e questo ha creato un dialogo speciale e una sintonia che non era scontata. Sono davvero grato a Celant perché in questo anno di confronto mi ha aiutato a fare una rilettura critica del mio lavoro che non immaginavo fosse possibile”.
Allora gli chiedo di scegliermi due foto per illustrare queste pagine, due foto che indichino il percorso di cui parla. “La prima è quella di una bambina che sta scavalcando una finestra. Fa parte di un lavoro nato tre anni fa grazie alla fotografa romana Stephanie Gengotti, che mi ha messo in contatto con Sevla, matriarca di una grande famiglia di rom bosniaci che vive a Ponte Marconi. Donna di grande intelligenza e sensibilità, ha fatto l’artista, la ballerina e la cantante, ha nove figli e 30 nipoti. Volevo trattare il tema dei rom e della grande intolleranza che li circonda, però non facendo un’inchiesta ma semplicemente cercando di creare un ponte con il lettore. Sevla mi ha aperto le porte e da allora li fotografo ogni volta che vengo a Roma, è il ritratto intimo di un nucleo familiare. Questo mi ricollega con uno dei miei primi lavori, quando oltre trent’anni fa rubai l’auto a mia madre per seguire il carro funebre di un bambino rom morto di freddo in un campo della Magliana, che il padre voleva seppellire in Bosnia”.
La seconda foto è scattata al porto di Lesbo, durante la grande fuga dei siriani tra il 2015 e il 2016: “Era agosto, faceva un caldo terribile, questo gruppo di profughi era bloccato da giorni, questo ragazzo aveva avuto un malore. Ho scelto questa foto perché riesce a far coincidere due momenti, lo specifico (la storia di questo ragazzo, quel giorno, in quel porto) e l’universale (la metafora della condizione dello sdradicamento e dell’erranza). Quando si riesce a fare questo la fotografia si esprime al massimo. È una cosa che puoi cercare, ma in realtà ti viene donata e quando accade te ne accorgi subito, tutto coincide”. Si ferma e ne aggiunge una terza, è uno sbarco notturno: “La cosa che mi ha impressionato di più è il sollievo di queste persone, sentivi in quel loro sollievo la guerra, ciò a cui erano sopravvissuti e sfuggiti”.
Viaggio a Mosul
Nel 2015 alla fine di “Terre spezzate”, il lungo viaggio attraverso il Medio Oriente che feci per il New York Times Magazine con il giornalista Scott Anderson, l’Isis era all’apice della sua espansione geografica e controllava un terzo dell’Iraq e della Siria. Sembrava invincibile, ma si sapeva che Mosul era la chiave di volta, se l’avessero persa sarebbe crollato tutto. Sono arrivato nell’ottobre del 2016 per raccontare quella che sarebbe stata una nuova Stalingrado, la battaglia urbana per eccellenza. Ho assistito a scene apocalittiche e spettrali, famiglie in fuga con le greggi, i fumi dei pozzi di petrolio, dati alle fiamme dall’Isis per creare uno schermo che bloccasse i bombardieri americani. Ho seguito i curdi e poi l’esercito iracheno per più di un mese nella riconquista della città. È di gran lunga la cosa più pericolosa che ho fatto.
La bambina con le gallette in mano è curda, era riuscita a fuggire quella notte da un sobborgo controllato dallo stato islamico. Era arrivata con il padre in un punto di raccolta dell’esercito curdo. Il suo volto raccontava tutto. Il fronte cambiava ogni giorno. A Bashiqa, villaggio a nord di Mosul e uno degli ultimi bastioni dell’Isis, dopo settimane di scontri i curdi lanciarono un’offensiva, fu una giornata di battaglia terribile. Due granate sfiorarono la nostra macchina. Miravano a noi perché per la propaganda era meglio uccidere dei fotografi e giornalisti occidentali che dei soldati curdi. Alla fine della giornata, quando sembravano avercela fatta, un cecchino colpì il carrista che guidava la colonna. Era il leader del gruppo. Si bloccarono sconvolti, poi cominciarono a fare retromarcia. Uscirono dai carri e crollarono per lo sfinimento e la commozione. Molti di loro erano anziani. Li ho visti combattere a piedi, casa per casa. Giovani e vecchi, insieme a combattere per liberare la loro terra.
Era notte, il ponte è quello che collega El Paso con Ciudad Juárez, siamo al confine tra il Texas e il Messico. Ho scattato quando ho visto due latinos che facevano il percorso al contrario. Cercavano di entrare negli Stati Uniti quando sono stati intercettati: stavano riattraversando di corsa il letto asciutto del Rio Grande. Questo lavoro sul confine era nato per un progetto collettivo di Magnum che si chiamava “Postcards From America”. Era il 2011. Eravamo cinque fotografi. Sul camper di Alec Soth c’erano anche Susan Meiselas, Jim Goldberg e Mikhael Subotzky. È stato uno dei punti alti della mia esperienza nell’agenzia Magnum: stare insieme, lavorare, discutere. Ognuno editava il lavoro degli altri. Abbiamo attraversato Texas, Arizona, Nuovo Messico e California. Arrivati a Oakland abbiamo stampato tutto in ventiquattro ore, affittato un locale e improvvisato una mostra estemporanea durata solo due giorni.
Di questo lavoro fa parte anche il mio racconto di Rochester dell’anno dopo sulle linee razziali che dividono l’America, che nemmeno la presidenza Obama è riuscita a curare. Questa volta siamo dieci fotografi di Magnum: affittiamo una grande casa nella via centrale della città a nord di New York. Io mi dirigo verso i quartieri periferici, ricordandomi di un famoso lavoro di Leonard Freed, che negli Anni Settanta fece un libro fondamentale sulla polizia di New York che si intitola “Police Work”. Ricordandomi questo lavoro e per rendergli omaggio ottengo di andare con la polizia di Rochester, un modo straordinario non solo per raccontare cosa fanno ma anche per entraree uscire da quartieri difficili. La foto è di un ragazzo appena arrestato perché stava minacciando il padre in mezzo a una strada con una katana, la spada giapponese.
Ho sempre fotografato il paesaggio, anche nei conflitti ho sempre cercato di cogliere l’uomo nel suo contesto. Per me l’Antartide è il nuovo fronte. Il cambiamento climatico è innegabile, lì si combatte la più grande delle battaglie per capire che vita avranno i nostri figli e i nipoti. Sono stato per un mese in Antartide con la NASA. Facevo base a Ushuaia, in Argentina, la città più meridionale del mondo. Quando il tempo lo permetteva salivo su un vecchio Orion P3, residuato della Guerra Fredda che dava la caccia ai sottomarini, vola a bassa quota e ha un’autonomia lunghissima. L’ideale per una missione di monitoraggio dei ghiacci del Polo.
Ogni anno fanno le stesse rotte e misurano lo stato del ghiaccio, con laser, sonar e radar. Hanno mappato anche il sottosuolo roccioso per vedere quanto si è assottigliato il ghiaccio. Ho chiesto di andare con loro per aggiungere un altro strumento di misurazione: la mia fotografia. Ho partecipato a sei voli, di quindici ore l’uno. Servono quattro ore solo per arrivare all’Antartide. È una sensazione incredibile. Sorvoli uno spazio che trascende l’umano. Una dimensione sconfinata, impossibile da leggere e da abbracciare con la fotografia. Nei miei scatti non c’è l’orizzonte: guardavo sempre in basso. Volevo creare una confusione e una curiosità, confondere micro e macro. Avverto spesso, anche in contesti di guerra, il senso del sacro, il limite del percepibile. L’avevo sempre sentito fotografando l’uomo, qui la scala era talmente altra che era pieno di rimandi metafisici. C’erano tre piloti e dieci scienziati. Non si parlava molto. Gli scienziati presi dai loro strumenti e i piloti dal volo quasi radente, con il clima che cambia in un secondo, un mondo straordinariamente bello ma assolutamente ostile.
Nel 2019 il Maxxi inaugurerà una sede a L’Aquila, per loro mi sono inventato questo grande polittico fatto di 140 foto. Sono vedute della città, con ombre molto nette e molto dure. Ci sono stato all’inizio di quest’anno e ho cercato un punto di vista diverso perché non volevo fotografare di nuovo le tracce del terremoto, che sono ancora molto presenti, così ho cominciato a vagabondare senza meta facendomi guidare dall’incontro tra la luce e l’ombra netta. Poi ho montato le foto in una grande griglia, di due metri per tre, fatta di immagini singole che potranno essere ricomposte ogni volta in un modo diverso.
Tra i fotografi più celebrati al mondo, vincitore di 10 World Press Photo e del Robert Capa Gold Medal Award, Paolo Pellegrin (Roma, 1964) sarà protagonista della mostra al museo Maxxi di Roma Paolo Pellegrin. Un’antologia, in programma dal 7 novembre al 10 marzo 2019. La retrospettiva, curata da Germano Celant, nasce da un lavoro lungo due anni sull’archivio del fotografo e ripercorre attraverso oltre 150 immagini, tra cui numerosi inediti e alcuni contributi video, gli ultimi vent’anni di attività: dal 1998 al 2017. La mostra rappresenta un’occasione preziosa per conoscere il percorso creativo e documentario e per approfondire i temi che animano il lavoro del maestro. Una grande parete d’ingresso sarà dedicata alla battaglia di Mosul del 2016. Ma lo sguardo di Pellegrin ha raccontato anche la violenza
negli Stati Uniti e ancora uomini, donne, bambini, soldati, profughi, rifugiati, migranti: da Gaza a Beirut, da El Paso a Tokyo, da Roma a Lesbo.
In occasione della mostra, è presentata in anteprima la prima parte del progetto fotografico realizzato da Pellegrin lo scorso gennaio a L’Aquila, nell’ambito della committenza fotografica affidatagli dal Maxxi stesso.