6 novembre 2018
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Biografia di Khalifa Belqasim Haftar
Khalifa Belqasim Haftar, nato ad Agedabia (Cirenaica, Libia) il 7 novembre 1943 (75 anni). Feldmaresciallo. Comandante in capo dell’Esercito nazionale libico (dal 2 marzo 2015) • «È il 26 agosto del 1969: un giovane ufficiale di soli 25 anni, Muammar Gheddafi, a capo di un gruppo di giovani militari guida un colpo di Stato per rovesciare la monarchia di re Idris. L’operazione ha successo e avviene in modo tutto sommato indolore. Nel circolo dei “cospiratori” c’è anche lui, Khalifa Haftar, allora giovane cadetto formatosi in Unione Sovietica. Il 1° settembre dello stesso anno viene proclamata la Repubblica. […] Con Khalifa Haftar il Rais instaura un solido legame; lo pone subito ai vertici della struttura militare del Paese. Il sodalizio con il sempre più capriccioso colonnello Gheddafi sembra tenere anche negli anni seguenti. Ad Haftar viene affidato il compito di comandare le truppe libiche a supporto di quelle egiziane nel tentativo di riconquista del Sinai occupato da Israele, nella guerra del Kippur (1973). Ed è sempre il generale Haftar ad essere incaricato nel 1987 di comandare quella che doveva essere una guerra lampo contro il Ciad, una vittoria facile, e che invece si tramutò in una disfatta per l’esercito libico. In questo conflitto, conosciuto come guerra delle Toyota (dal nome delle veloci jeep dotate di mitragliatrice su cui si spostavano i soldati del Ciad), un decimo dell’esercito libico viene sterminato e migliaia di militari sono fatti prigionieri, tra cui il generale Haftar. Gheddafi lo sconfessa. E qui avviene la svolta. Durante la detenzione forma un contingente di circa duemila prigionieri libici, la “Forza Haftar”, equipaggiata poi dagli Stati Uniti, con un obiettivo preciso: rovesciare il regime libico. Haftar è ora un nemico di Gheddafi e il leader del Fronte per la salvezza della Libia, sostenuto dalla Cia. Solo grazie a un ponte aereo organizzato dalla Cia – un’operazione ancora poco chiara – Khalifa viene trasportato dal Ciad in Zaire con 350 dei suoi uomini più fedeli, per poi partire alla volta degli Stati Uniti, dove gli viene rilasciata la cittadinanza» (Roberto Bongiorni). «Khalifa Haftar si è stabilito nell’amena cittadina di Vienna, in Virginia, a otto chilometri dalla centrale della Cia di Langley. Troppo facile per Gheddafi fare uno più uno: più volte attaccò il suo ex fedele “compagno della prima ora” accusandolo di essere un agente segreto pagato dalla Cia. L’accusa è stata sostenuta nel libro Manipulations africaines pubblicato nel 2001 dal Monde Diplomatique, nel quale si raccontava che negli anni Novanta Haftar, con finanziamenti dell’intelligence americana, “creò una milizia libica con lo scopo di affrontare frontalmente il regime di Tripoli”. Ci sono poche notizie sulla sua attività negli anni successivi. Nell’aprile del 1992 partecipò a un vertice dell’opposizione libica in esilio a Dallas, Texas, organizzata assieme ai servizi segreti americani, quale comandante militare del braccio armato del Fronte nazionale di salvezza (Fnsl), il cui leader politico era Yusuf Al Megarief. L’8 febbraio 1993, Al Hayat pubblicò una sua roboante dichiarazione quale comandante dell’Esercito nazionale libico, braccio armato del Fnsl: “L’aiuto degli Stati Uniti è soltanto logistico. Il nostro esercito è in grado di raggiungere la Libia in poche ore dal mare o dal cielo o da uno dei sei Paesi limitrofi”. Impresa mai tentata. Nel 1996 la Reuters riportò notizie di “viaggiatori” in fuga dalla Cirenaica, in cui era in corso l’ennesima rivolta contro la Tripolitania, che attribuivano a Haftar la guida della sollevazione. Poi il silenzio, interrotto da sporadiche dichiarazioni. Il silenzio prosegue durante tutto il corso della “rivoluzione libica” iniziata nel febbraio 2011, nella quale sia Haftar sia i suoi uomini – prontamente riportati a Bengasi dagli Stati Uniti – non si distinguono in particolar modo nelle cronache dei (rari) scontri egemonizzati dalle varie milizie. L’Esercito nazionale libico, nonostante la sua pomposa denominazione, ha un ruolo marginale sul terreno. […] A sorpresa, però, nel marzo 2011 un portavoce delle forze armate ribelli annuncia che Khalifa Haftar è il nuovo “comandante in capo” delle forze ribelli al posto di Abdel Fattah Younes, ex responsabile della Sicurezza di Gheddafi, da lui inviato a Bengasi per domare la rivolta e però subito passato coi ribelli. Il Consiglio nazionale transitorio libico (Cnt), massimo organo politico della rivolta, però smentisce la nomina (evidentemente forzata dagli Stati Uniti). Ma Haftar non desiste, e, dopo che Fattah Younes è assassinato a Bengasi nel luglio del 2011 da “mano amica”, il 18 novembre 2011 viene indicato come capo di stato maggiore delle rinate Forze armate libiche da un “manifesto” firmato da 150 ufficiali. Il suo prestigio dopo la sfortunata avventura in Ciad, unito agli interessati consigli dei partner americani, conta ancora qualcosa nella Libia del post-Gheddafi. La carica gli viene assegnata, ma pochi mesi dopo viene mandato in pensione e viene sostituito dal generale Abdel Salam Al Obeidi. Il 2 febbraio 2014 Haftar ritorna però sulla scena e annuncia tronfio e trionfante un tragicomico colpo di Stato: intervistato da Al Arabiya, annuncia che i militari ai suoi ordini “controllano tutti i gangli del potere a Tripoli” e ingiunge lo scioglimento del governo e del Parlamento e una road map in cinque punti: di fatto, prende il potere. Ma non è vero nulla. A Tripoli regna la calma, e il governo non impegna fatica per dimostrarlo. Haftar viene inseguito da un mandato di cattura e ripara in Cirenaica» (Carlo Panella). Poco dopo, «a maggio, fa partire l’operazione Karama [“dignità” in arabo – ndr], per contrastare il terrorismo islamico e prendere il controllo della Libia, […] anche se l’Europa e l’Occidente hanno già scelto Fayez Al Sarraj. In questo periodo, Haftar ottiene il consenso di importanti potenze mediorientali: Egitto ed Emirati Arabi Uniti in primis, poi anche l’Arabia Saudita. Costruisce, sembra, rapporti con Israele. Ma è soprattutto dalla Russia che riceve il placet […] per continuare la sua offensiva. Vladimir Putin considera Haftar la sua testa di ponte in Libia, soprattutto per ottenere di nuovo quei contratti stipulati ai tempi di Gheddafi e polverizzati dalla guerra civile. Ricevuto a bordo dell’incrociatore russo Kuznetsov, incontra il ministro della Difesa, cui promette una base russa in Libia. In Francia, Emmanuel Macron lo riconosce quale leader libico insieme al presidente Fayez Al Sarraj. La rete internazionale di Haftar si fa estesa. Dopo anni di offensiva, assume un ruolo di peso in Libia, e sono molti gli attori mediorientali che puntano su di lui piuttosto che su Sarraj» (Lorenzo Vita). «Lo scontro tra Haftar, uomo forte della Cirenaica, e il premier di Tripoli Fayez Al Sarraj è il riflesso della complessa partita giocata da Italia e Francia per il controllo politico ed economico del Paese. Macron tenta da tempo di strappare all’Italia l’iniziativa politica nell’ex colonia. Tutto inizia nel luglio di un anno fa, quando Macron convoca a Parigi Haftar e Sarraj per mediare una riconciliazione. Il tentativo fallisce, ma Macron non demorde. L’arrivo al potere di Cinque stelle e Lega, ovvero di quella che il presidente francese considera la "lebbra populista", lo spinge a riprovarci. Il 29 maggio, mentre Salvini e Di Maio discutono l’intesa di governo, il presidente francese approfitta del vuoto di potere a Roma per riconvocare Haftar e Sarraj e dettar loro un accordo che fissa le elezioni per il prossimo 10 dicembre. Con quel voto Macron punta a regalare la vittoria ad un generale forte del consenso in Cirenaica e dell’appoggio di quanti in Tripolitania lo considerano la miglior garanzia per tener lontani i jihadisti. Ma Macron non ha fatto i conti con l’irruenza di un Haftar che subito dopo tenta di metter le mani sui terminali petroliferi della Cirenaica. L’obiettivo è semplice. Vuole sottrarre alla Noc (National Oil Company, la compagnia nazionale di Tripoli) i proventi del greggio libico, dirottarli su una compagnia della Cirenaica ed indebolire l’esecutivo di Sarraj. L’azzardo inguaia anche Macron. Dopo un quadrilaterale con italiani, inglesi e statunitensi convocato a Roma il 9 luglio su richiesta del presidente Trump, il ministro degli Esteri francese è costretto a chiedere ad Haftar di restituire i terminali petroliferi alle competenze di Tripoli. E nella stessa riunione viene anche cancellato l’appuntamento elettorale del 10 dicembre voluto dall’Eliseo» (Gian Micalessin). Dopo un crescendo di tensioni, nel settembre del 2018, «le violenze in Libia hanno obbligato l’Italia a cambiare piani. L’asse fra Roma e Tripoli, rappresentato dal supporto italiano a Fayez Al Sarraj, si sta sgretolando insieme alla già fragile leadership del premier libico. E adesso, con Khalifa Haftar a controllare una parte delle milizie che hanno colpito Tripoli e che minaccia di marciare sulla capitale, il rischio per Roma di ritrovarsi senza alcun appoggio in Libia è molto elevato. Un pericolo che l’Italia non può e non deve correre: la Libia, per il nostro Paese, è di fondamentale importanza. E proprio per questo motivo, il governo italiano, che ha puntato per anni su Sarraj insieme alle Nazioni unite, si trova costretto a dialogare anche con chi ha minato le basi della strategia italiana in Libia: il maresciallo Haftar. La conferma del canale aperto con il generale libico arriva direttamente dal governo italiano. Il ministero degli Esteri ha comunicato attraverso il profilo Twitter che il ministro Enzo Moavero Milanesi è stato a Bengasi per incontrare il leader della Cirenaica. […] Roma ha troppi interessi in Libia per farne una questione ideologica. Abbiamo puntato sul cavallo sbagliato, ma questo, tutto sommato, ci ha comunque permesso di ottenere una netta posizione di vantaggio in tutta la parte occidentale del Paese, a cominciare dai terminali Eni. E, adesso, proprio la nostra presenza a ovest ci permette di essere in ogni caso interlocutori obbligati per chiunque, come Haftar, voglia marciare su Tripoli» (Vita). Da ultimo sembra profilarsi una possibile distensione. «L’Italia ha ottenuto l’adesione dei principali attori politici libici per la conferenza di Palermo del 12 e 13 novembre: Fayez al Sarraj, capo del Governo di accordo nazionale di Tripoli, e il generale Khalifa Haftar, comandante dell’Esercito nazionale libico. Sembrano esserci quindi buone basi per quello che potrebbe costituire il primo grande successo italiano (e dell’attuale governo) nel lungo e complesso tentativo di dipanare la matassa libica. […] La svolta è giunta il 29 ottobre con la visita del generale libico Khalifa Haftar a Roma, dove ha incontrato il premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, che lo scorso mese era andato a incontrarlo in Cirenaica. […] Alla visita di Haftar sembra aver dato un forte impulso la pressione di Vladimir Putin (Mosca ha un accordo di cooperazione militare con il generale), a cui si sarebbe esplicitamente rivolto Conte durante la sua recente visita al Cremlino. Altri vedono dietro la visita di Haftar a Roma e la sua adesione al vertice di Palermo la decisione del governo di Tobruk di seguire l’iniziativa italiana e abbandonare la pretesa francese di tenere elezioni entro dicembre, irrealistica, come ha recentemente ammesso in modo autocritico anche Parigi. Haftar ha chiesto a Conte di far tornare a Tripoli l’ambasciatore Giuseppe Perrone, precedentemente “ostracizzato” proprio dal feldmaresciallo. “Non abbiamo mai avuto niente contro il vostro diplomatico. Quello che ci premeva era un cambio di rotta politica”, avrebbe detto Haftar, confermando dì di aver ottenuto dal governo italiano le garanzie che aveva sempre chiesto di non venire marginalizzato dall’iniziativa negoziale di Roma. Il feldmaresciallo Haftar ha chiesto al premier italiano di “aiutare la Libia a ritrovare la sua stabilità”, riconoscendo di fatto il ruolo chiave di Roma, come aveva fatto il presidente Usa Donald Trump e, il 24 ottobre, lo stesso Putin. […] Difficile ipotizzare l’esito del summit, ma i primi segnali di distensione tra Tobruk e Tripoli sono già di tutta evidenza. Al Sarraj ha provveduto a inizio ottobre a un rimpasto di governo che garantisce maggiore spazio alle milizie di Misurata (un tempo nemiche giurate di Haftar, ma oggi disposte a farsi garanti di un compromesso tra le fazioni di Tripoli e Tobruk) e approvato da Haftar. Inoltre nei giorni scorsi al Cairo si sono incontrati i comandanti delle milizie che sostengono Al Sarraj e dell’Esercito nazionale libico, in vista della costituzione di un quartier generale comune. […] Anche la Francia, rivale storica di Roma, sembra sostenere il summit voluto dall’Italia e propendere per una distensione tra i due Stati europei. […] È probabile che l’ampio supporto internazionale ottenuto dall’iniziativa italiana indurrà Parigi a cercare accordi con Roma per non rischiare l’emarginazione dalla delicata fase di stabilizzazione della Libia» (Gianandrea Gaiani) • «Per comprendere i nostri successi occorre ricordare che nascono dalle delusioni dopo la caduta di Gheddafi. I libici si attendevano pace, sicurezza e democrazia. Ma da subito sono cresciute le forze del radicalismo legate ai Fratelli musulmani. I libici già nel 2012 vennero chiamati al voto. Però dopo decenni di dittatura non avevano alcuna idea di cosa volesse dire democrazia. Semplicemente non erano pronti. Così dal Consiglio di transizione e dal primo Parlamento di Tripoli sono emerse le forze del terrorismo. Il popolo ha eletto le persone sbagliate, che ne hanno approfittato per promuovere Al Qaeda e persino il nuovo Isis, assieme a una visione pericolosa dell’islam. Voi europei non sapete con quanta rapidità l’Isis e i movimenti islamici locali come Ansar Al Sharia abbiano cominciato a minacciare, sequestrare, assassinare tutti coloro che consideravano nemici. È iniziato specialmente nell’Est, ma si è sparso a macchia d’olio. Dal 2012 sino all’inizio della mia Operazione Karama nel maggio 2014 sono stati uccisi oltre 700 militari e almeno altrettanti civili tra Bengasi e la Cirenaica: per lo più giornalisti, intellettuali, cristiani, avvocati, professori, giudici, imam moderati, difensori dei diritti delle donne, esponenti della società civile. Chiunque protestasse, anche solo su internet, veniva eliminato brutalmente, e le foto dei cadaveri diffuse per incutere paura, obbligare al silenzio. A Tripoli ho provato a lanciare appelli, a chiedere aiuto ai vecchi militari. Ma il governo voleva arrestarmi. Allora sono venuto a Bengasi. Ho raccolto 300 volontari tra i soldati più fedeli, assieme a 25 ufficiali armati e dotati di 75 veicoli di vario genere. Il 16 maggio 2014 abbiamo attaccato in forze Rafallah Sati, la base di Isis e Al Qaeda nel centro di Bengasi. Loro controllavano 7.000 uomini. Ma non si aspettavano il nostro assalto, e abbiamo ucciso 250 dei loro capi. Il giorno dopo davanti alla mia caserma c’erano 2.000 nuovi volontari, tanti con i loro fucili e negli zaini cibo per un mese. Poi il nostro numero non ha fatto che crescere» (a Lorenzo Cremonesi). «“Operazione Dignità”: l’ha inventato lei, questo nome? “Certo. Ci sono due parole: ‘operazione’, che significa il percorso militare per raggiungere un risultato; ‘karama’, che nasce dalla domanda ‘di che cosa abbiamo bisogno?’. L’ho chiesto ai miei ufficiali. Molti suggerivano il nome d’Omar Mukhtar, l’eroe libico. Ma quello che stiamo affrontando è più di quel che affrontò Mukhtar. ‘Dignità’ è una parola che dà la speranza in qualcosa che i soldi o il petrolio non ti possono dare”. […] Accetterebbe un aiuto da Israele? “Il nemico del mio nemico è mio amico. Perché no? Ma non credo che Israele mi appoggerebbe”» (Francesco Battistini) • «C’è un fraintendimento a proposito del feldmaresciallo libico Khalifa Haftar. […] È vero che Haftar lotta contro un tipo di islamisti, ma abbraccia allo stesso tempo un altro tipo di islamisti (“abbraccia” nel senso che li favorisce, ne riceve appoggio e intrattiene con loro un’alleanza vantaggiosa), e da quando c’è lui al potere la città di Bengasi – che è il suo centro operativo – è diventata molto più rigida di prima dal punto di vista religioso. Questi islamisti pro Haftar sono i salafiti cosiddetti quietisti, vale a dire che seguono un’interpretazione dell’islam che chiede loro di stare sempre e comunque dalla parte di chi detiene il potere e quindi anche di schierarsi contro gli islamisti eversivi – quindi contro i gruppi che vogliono scalzare le autorità in nome della religione, siano essi i Fratelli musulmani oppure lo Stato islamico. […] Il risultato è che nell’est della Libia molti aspetti della vita di tutti i giorni cadono in modo progressivo sotto il controllo dei salafiti. Per esempio, si può ricordare un rogo di libri che […] fece scalpore in tutto il Paese: i libri furono bruciati perché considerati pericolosi – autori come Dan Brown e Paulo Coelho – oppure perché “facevano propaganda a favore dello Stato islamico creato dagli ebrei”, che è una dichiarazione che, se da un lato suggerisce uno zelo apprezzabile contro l’Isis, dall’altro fa intravedere qualche problema di antisemitismo» (Daniele Raineri). «Cosa risponde a chi imputa al suo esercito di avere commesso crimini contro i diritti umani? Ci sono le condanne con tanto di video riprese da Amnesty International e Human Rights Watch, per esempio contro un suo ufficiale, Mahmoud Mustafa Warfalli, accusato di decine di esecuzioni di prigionieri a sangue freddo. “Noi abbiamo arrestato Warfalli sulla base dei rapporti che abbiamo ricevuto, ma per ora senza prove concrete. È stata aperta un’inchiesta. Nel caso quei crimini fossero provati ci sarà un processo, e anche la condanna. Io rispetto le leggi per i diritti umani e l’autorità del Tribunale internazionale dell’Aja. Va però aggiunto che in Libia ogni giorno vengono compiuti crimini orribili. Come mai ci si focalizza solo su Warfalli?”» (Cremonesi) • Almeno cinque figli maschi e una femmina: tre dei maschi vivono in Libia (due già capitani dell’Esercito nazionale libico), gli altri due (agenti immobiliari) e la femmina negli Stati Uniti, in Virginia • Ignote le sue effettive condizioni di salute. Nell’aprile 2018, mentre era ricoverato in una clinica di Parigi, circolò insistentemente la notizia della sua morte, con tanto di speculazioni circa la causa del decesso (una grave insufficienza cardiaca o un tumore cerebrale), prima che essa fosse clamorosamente smentita, e che lo stesso Haftar tornasse in areo a Bengasi, pochi giorni dopo, in condizioni fisiche apparentemente normali • «Nel cuore, un antico condottiero dell’Islam: “Khalid Ibn Al Walid. Lo conosce? È il più grande stratega della storia. Prima combatté i musulmani, poi si convertì e si mise con loro. Senza perdere mai una battaglia. Ancora oggi uso certe sue tattiche”» (Battistini) • «“Questo caos è figlio di Gheddafi. Del suo regime. D’una certa mentalità in cui ha cresciuto i libici. Io ero molto amico suo. L’ho aiutato a salire al potere nel 1969, gli ho insegnato molte cose militari. Poi mi sono distaccato e non lo volevo più al potere, ma non mi è piaciuto com’è stato eliminato. In quel modo barbaro. Senza un processo, che invece sarebbe stato un esempio da dare al mondo. Ci sono popoli che non hanno un leader e ci sono leader che non hanno un popolo: l’avessimo processato, avrei voluto chiedergli perché aveva rinunciato al popolo”. Lei ce l’ha, un popolo? “In Libia molti mi amano. Ma tengo sempre a mente che un leader dev’essere come un genitore o un buon insegnante: si fa rispettare, senza seminare il terrore”» (Battistini).