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 2018  novembre 06 Martedì calendario

Aste falsate, bluff, riciclaggio: il lato oscuro dell’arte

L’arte antica costava perché valeva, l’arte contemporanea vale perché costa. Questo è l’assioma fondamentale per capire un’arte che non esiste fuori dal mercato, poiché il mercato è l’unico certificatore di valore, essendo un’arte che non si può più giudicare con gli occhi e che ha perso ogni legame con il dato estetico e culturale, e il cui unico valore, appunto, è il prezzo. E si potrebbe perfino non avere nulla da obiettare: ogni epoca ha avuto la sua arte e i trend setter che ne hanno determinato il successo, un tempo illuminati mecenati, oggi spregiudicati speculatori. Solo che il mercato dell’arte non è, come si pensa, perfettamente concorrenziale, semmai assomiglia a un oligopolio in cui pochi player possono determinare il prezzo e dunque il valore delle opere. Un mercato che oggi quota circa 60 miliardi di dollari all’anno, che dal 2005 nonostante le battute d’arresto ha raddoppiato di volume, i cui top price vengono battuti in asta sempre più spesso sopra i 100 milioni di euro e che permette, ci si illude, facili e strepitosi guadagni a sei cifre.
Ma non è tutto oro quello che luccica, c’è un lato oscuro dell’art system che è bene conoscere se non si vuole finir preda di facili teorie, e che viene svelato dal libro di Georgina Adam La face cachée du marché de l’art (Beaux Arts éditions) presentato ieri al Centre Pompidou di Parigi durante l’Art Market Day: un pamphlet economico, pieno di dati e aneddoti che la Adam, columnist del Financial Time, aveva pubblicato a dicembre 2017 in Inghilterra senza troppo scalpore con il titolo di The Dark side of the boom (in Italia sarà pubblicato a febbraio da Joahn&Levi) e che invece sta suscitando polemiche in Francia. Il motivo è intuibile: nel mercato dell’arte anglosassone si muovono soprattutto privati, mentre in quello francese sono coinvolte istituzioni pubbliche, come i musei massicciamente finanziati dallo Stato, e dunque le distorsioni, gli intrighi, gli scandali appaiono meno sopportabili. 
La Adam spiega gli eccessi del mercato dell’arte e ne mette in luce la parte meno nobile. Di fatto esiste un circuito che è difficile definire virtuoso per il quale il gallerista, il mercante, il curatore, il giornalista, la casa d’asta, la fiera, il museo, l’art advisor... contribuiscono a far salire il prezzo di un artista col fine di speculare e ottenere un profitto. D’altronde, l’opera d’arte sempre più spesso è considerata una semplice merce da scambiare, in alcuni casi tout court un investimento alternativo rispetto a quello finanziario, remunerativo e senza troppi controlli. Per esempio non esistono i reati penali tipici del mondo finanziario (aggiotaggio, insider trading...), e non è punibile la pratica di portare in asta un’opera e ricomprarla tramite intermediario per farne salire il prezzo. Proprio sulle case d’asta si sofferma la Adam in quanto l’unico prezzo pubblico è quello che esce dalle battute, mentre rimane riservato quello frutto di trattative private nelle gallerie. Un prezzo, dunque, fondamentale per costruire gli indici che misurano l’andamento degli artisti e su cui poi si basano gli investimenti. Questione, quella degli investimenti, su cui si dilunga la giornalista inglese, mettendone in luce paradossi e distorsioni, facendo, coraggiosamente, i nomi e i cognomi di tutte le poche persone che formano una sorta di inner circle di ricchi e ricchissimi: per esempio Pinault (e da qui si capisce l’accoglienza in Francia) imprenditore del lusso, super collezionista, mecenate con le sue fondazioni a Venezia, ma anche proprietario di Christie’s, una figura che sta al principio e al termine della catena alimentare dell’arte: compra, valorizza, vende, guadagna.
Nel lato oscuro approfittano dell’ombra ovviamente speculatori, avidi dealer, curator mercenari, falsari. E la Adam ha gioco facile a snocciolare le storie più incredibili e le frodi più comuni: con l’arte si eludono le tasse, si lavano i soldi sporchi, si producono fondi neri. Perfino nei «panama papers» furono trovati numerosi evasori che tenevano nascoste le proprie collezioni nei paradisi fiscali. Fuori però dalla parte più opaca e illegale, resiste un meccanismo di apprezzamento dell’artista discutibile. In una recente intervista a Forbes, il principe dei nostri galleristi nel mondo, scopritore di numerosi talenti, Massimo De Carlo, lo racconta candidamente: «Quando puntiamo su qualcuno lo sosteniamo e contribuiamo alla sua carriera posizionandolo nei luoghi importanti e decisivi come mostre nei musei, biennali, triennali, fondazioni, collezioni importanti in tutto il mondo». L’inghippo è che in Francia e in Italia, musei, biennali, triennali... sono istituzioni pubbliche che dovrebbero certificare i valori culturali, prescindendo da quelli di mercato, evitando per quanto possibile partecipare al «boom».
In conclusione, il saggio della Adam chiarisce bene il fenomeno della bolla speculativa che prima o poi esploderà, anche se al gioco partecipano sempre più nouveau riche, circa 2.000 fortunati billioner in dollari, che fanno un mercato al cui vertice appena 25 artisti, quotati sopra i 100 milioni, contribuiscono al totale per oltre il 40%. In pratica un monopolio i cui fallimenti vengono sottaciuti, come il caso quasi comico dello «zombie formalism», un movimento creato a tavolino le cui opere, tra il 2012 e il 2014, raggiunsero d’improvviso quotazioni stellari per poi deprezzarsi con altrettanta rapidità. La bolla esploderà, perché si fa fatica a immaginare qualcosa oltre la cifra dei 450 milioni di dollari pagata per il Salvator mundi di Leonardo. Qualcuno si troverà con opere pagate milioni che varranno quasi zero. Ma al contrario delle azioni delle banche fallite le cui cedole appese al muro non producono alcuna soddisfazione, se si avrà scelto inseguendo il proprio gusto e la bellezza, si potrà in ogni caso sempre godere del «dividendo estetico» che la buona arte produce.