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 2018  novembre 06 Martedì calendario

Biografia di Philippe Daverio raccontata da lui medesimo

Philippe Daverio, 69 anni, alsaziano di nascita e milanese di adozione, ha vissuto tante vite in una. Gli manca solo di andare nello spazio. Critico d’arte, saggista, autore-conduttore tv, animatore culturale, politico e instancabile viaggiatore. «Quello che mi piace di più? – fa eco alla domanda il professore seduto nel suo affascinante studio tra quadri, oggetti carichi di memoria, computer – quello che sto facendo ora, scrivere un libro a favore dell’Europa». Roba da niente, insomma. Sempre avventure di un certo peso; chissà che cosa si immaginava della sua vita quand’era giovane. «Inizialmente, quando ero francese, volevo fare il funzionario pubblico. Diventato italiano ho pensato che era corretto campare. Credo alla Provvidenza e che se uno dà retta al piano di sopra la strada gli viene indicata».
Nato in Francia, si considera un immigrato?
«No, eravamo degli europei di base. In casa si parlavano tre lingue e due dialetti; mio nonno fece il servizio militare a Berlino e il mio prozio a Parigi, mio nonno era italiano, insomma una famiglia Ue. Siamo venuti qui per una grossa operazione immobiliare a Varese fatta da mio padre».
Che ricordi ha della sua educazione giovanile?
«Ho avuto una educazione ottocentesca in un collegio episcopale (mostra la foto, ndr). Ricordo ancora una severità assoluta. Alzarsi alle 5 del mattino, ritmo di vita durissimo, ogni giorno l’obbligo di giocare per mezz’ora a football. Penso ancora a quel pallone scuro e gelido, di cuoio, che quando ti colpiva portava via un pezzo di pelle. Ma quella scuola mi ha lasciato una formazione di base con la quale ho vissuto di rendita a lungo, una bella formazione per la crapa (testa in milanese, ndr). Nella provincia francese la borghesia veniva tutta formata lì, in quel luogo».
Può dipingere un ritratto di famiglia?
«Mio padre era piccolo e napoleonico come il suo nome, Napoleone appunto, molto grintoso e totalmente lumbard; parlava in alsaziano. Un suo prozio fece le Cinque Giornate di Milano. Come carattere ho preso da papà, ma forse di più dalla mamma, Aurelia, un colonnello molto umano e con una inclinazione a difendere il gusto».
Uno come lei non può non avere un po’ di sangue nobile, o no?
«C’è l’elenco dei milanesi doc del XII secolo e il nome Daverio è già lì. Perciò non ho fatto altro che andare alla radice, come un salmone che ritorna alla fonte. Sento di appartenere a Milano, e me lo dice la memoria dei cromosomi. Che mi suggerisce pure che appartengo al posto di mio nonno, Berlino».
Sembrerebbe che alle origini ci tiene proprio...
«Per evitare che questo discorso sull’appartenenza fosse una pazzia letteraria, ho chiesto a mio fratello, il meno letterato, Paul, che è uno dei più noti chirurghi plastici svizzeri. Gli ho domandato ma quando sei a Berlino come ti senti? e lui mi ha risposto: A casa. Insomma lo sa pure mio fratello che non ha letto la letteratura guglielmina».
Non solo la provenienza, nella vita contano pure scelte e bivi, ne vuole rivelare almeno uno?
«Beh, quando ho deciso di mollare gli studi. Non mi sono laureato all’università Bocconi. Mi ero rotto, non avevo più voglia di stare lì. Ero sessantottino, come me diversi miei amici anche loro sessantottini non si sono laureati. Ho dato l’ultimo esame, non la tesi. Ho deciso di fare altro nella vita».
Qual è stato il suo primo lavoro?
«Lasciata l’università mi sono messo subito a fare il mercante d’arte. Prima l’ho fatto stando a casa, subito dopo ho aperto una bottega vera e propria nel centro di Milano. Allora fare questo era una cosa facilissima».
Milano è stata almeno un po’ buona con Daverio?
«Una mattina sono uscito di casa e mi sono detto voglio trovare una bottega. Avevo 27 anni, ne ho parlato con mia moglie. Quel negozio l’abbiamo cercato in Montenapo, l’ho trovato subito, ce n’era uno in affitto. La città a quei tempi offriva tante opportunità ai ragazzi, occasioni che nessuno ora si può immaginare. Adesso Milano offre decisamente meno».
Ci fa un bilancio delle sue avventure lavorative?
«Per quanto riguarda l’editoria, decine di libri scritti nel campo dell’arte. Scrivere è il modo più personale e libero per guadagnare denaro. Una persona sta in casa, apre il computer, digita i tasti e via. La sopravvivenza si fa con le dita. È un lavoro artigianale fantastico».
E quali sono gli argomenti che l’appassionano di più?
«Sostanzialmente quelli di cui mi occupo. La storia dell’arte, un po’ la politica. E la musica, naturalmente. Dove lavoro e abito ci sono più pianoforti. Ho studiato e mi piace moltissimo suonare Mozart. La musica serve per calmare i nervi ed è inoltre propedeutica all’estetica, tutti i concetti di armonia sono legati alla musica».
In tutto questo che spazio hanno gli affetti?
«Sono fondamentali, senza questi una persona non carbura. Credo che la famiglia non sia una roba del tutto sbagliata. Il pregio numero uno è che rappresenta la prima struttura di solidità alla quale uno appartiene. Vengo da una famiglia enorme ma vivo in una piccolina: io, mia moglie, il figlio, la sua ragazza e poi abbiamo allargato con cinque cani».
Vissi d’arte e di famiglia, e le amicizie dove le mettiamo?
«Importantissime, quelle vere, quelle che legano al destino. Io devo gran parte della mia fortuna milanese al fatto di avere avuto tre o quattro persone, di una generazione anteriore alla mia, che mi hanno dato una mano a fare quello che ho fatto».
E se (ri)pensa alla politica...
«Come assessore leghista mi sono trovato benissimo, perché c’era un sindaco come Marco Formentini. Lui parlava francese e inglese come l’italiano. Era di ottima famiglia, suo zio aveva seguito gli scavi archeologici della Lunigiana, c’è un museo. Io sono arrivato a lui perché era molto amico dell’editore Mario Spagnol e io pure. Ai tempi amavo la forza di rottura rivoluzionaria che aveva la Lega, che ora però è diventata rurale».
I suoi amici quella scelta non l’hanno presa benissimo...
«C’è una persona alla quale ero molto legato, amico pure di mia moglie, il giornalista Giorgio Bocca. Lui mi sostenne contro tutta la buona borghesia. Perché quando feci la scelta di Formentini, la mia buona borghesia di Montenapo mi guardò male. Ma io forse per genesi francese, sono un po’ giacobino».
Di cosa va fiero di quell’esperienza?
«Quando ero assessore ho lavorato anche all’idea della cosiddetta Città metropolitana, la sua genesi; un’idea che ancora oggi credo sia importante. Ho spinto tanto in questa direzione ma la cosa non è ancora sbocciata, sono convinto che nei prossimi anni succederà, ce lo chiederà l’Europa».
Cambiamo canale: dalla pubblica amministrazione alla tv...
«Ho fatto Passepartout sui canali Rai, trasmissione nata per caso e nata con uno spirito anti-televisivo che si occupava di storia dell’arte. Abbiamo dimostrato che esiste una fascia di italiani interessati all’argomento, avevamo un 5% di audience, circa tre milioni di persone. Poi, purtroppo, la televisione non si interessa a noi, le nicchie in Italia sono proibite».
Televisione o no, come speaker si trova a suo agio?
«Io faccio molte conferenze pubbliche ed lì che trovo il rapporto fisico con il lettore. In questo senso devo la mia fortuna ai quattro anni di politica che ho fatto. Prima avevo paura a parlare in pubblico. È stato come imparare a nuotare cadendo in un canale».
E nei panni del critico (o giudice)?
«Una faticaccia davvero anche se molto bella. Sono presente sia nello Strega sia nel Campiello e devo occupami di centinaia di libri ogni anno. Lo faccio ricorrendo pure a un meccanismo di annusatura dell’opera. È come negli esami all’università, si capisce subito se uno studente c’è oppure proprio non c’è».
A questo punto della sua vita, ha altri progetti?
«Assolutamente sì. Da pochi giorni sono entrato nel settantesimo anno di vita, è stato uno choc psichico ma il primo progetto che ho è quello di non rimbambire. Adesso ci sono tempi e progetti molto più brevi. Ho degli amici novantenni che sono molto svegli, per me sono un modello da seguire».
Come vede il futuro, c’è qualcosa che le fa paura o terrorizza?
«Una cosa che mi fa paura, vivendo in Italia, è la povertà. Sono molto riconoscente alla nostra sanità per le cure che ho ricevuto in passato, ma qui se si diventa poveri è una catastrofe, non ti risollevi più. So che fino a quando posso lavorare vado bene, nel caso contrario diciamo che mi potrei sentire un po’ imbarazzato».
C’è qualcosa a cui non vorrebbe mai rinunciare?
«Vorrei ancora avere una possibilità di partecipare alla politica. Penso che questo sia molto importante per ogni persona. Potrei accettare una proposta in questo senso in un’unica direzione, in una sorta di europeismo riformato. Io sono fautore non dell’Europa di oggi, ma assolutamente dell’Europa sì, e la vorrei composta di cinquanta regioni, che è l’unica soluzione vera che possiamo avere».
Ma di tempo libero per sé ne ha?
«In generale no, poi c’è da dire che il tempo applicato alle cose è più bello. Se c’è da cucinare un piatto mi piace molto farlo, mia moglie mi frena perché sporco troppo le pentole. Ero legato alla cucina delle mie origini, amo gli arrosti, amo il puree, amo certe zuppe francesi. Però amo molto anche l’italianità. Senza spaghetti non si può vivere, il risotto è fondamentale».
Qualche giorno per le vacanze lo scova da qualche parte?
«I viaggi hanno un senso quando non sono solo turistici, quando dietro c’è un progetto. Una volta con sei amici abbiamo preso in affitto un rompighiaccio alle Isole Svalbard per andare al Polo Nord. Oppure apprezzo gli spostamenti che nascono per motivi di lavoro. Per esempio in Cina a fare un video, all’Avana per un trasmissione. Ancora ricordo la trasferta per la Biennale di Dakar».
Per i viaggi intellettuali e artistici lo spazio lo trova...
«Beh noi siamo sempre stati legati alla musica. Quindi in questo senso viaggi tanto. Mi piace l’opera lirica, perché è una delle identità dell’italianità. L’Italia non è un Paese fondato sul lavoro ma sul melodramma; la Germania sulla tragedia e la Gran Bretagna sull’arrivo dall’estero di forze musicali. Senza Haendel non ci sarebbero stati i Beatles. La Francia, infine, ama la musica pomposa».
Con l’opera ha mai avuto «incontri ravvicinati» di qualche tipo?
«Nel 2008 sono stato chiamato dal regista Pier Luigi Pizzi a interpretare il narratore Njegus nell’operetta La vedova allegra di Franz Lehár, in scena al Teatro alla Scala. È stata un’emozione formidabile perché sono rimasto in scena per tutta la durata dello spettacolo».
Che rapporti ha con il Teatro alla Scala?
«Attualmente sono nel consiglio di amministrazione. In verità i miei ruoli gestionali si sono svolti tutti qui, a Milano: prima a Palazzo Marino, poi mi sono occupato del Duomo e del suo museo, e ora il Piermarini, tutti luoghi che raggiungo a piedi».
Con tutte queste esperienze che cosa ha capito dell’Italia?
«A proposito ho scritto un libro. L’Italia è un Paese diverso da tutti gli altri Paesi europei, con parametri aggregativi differenti. Tutta l’Europa è monarchica, noi siamo comunali, una sommatoria di comuni. L’Italia è unita con la forchetta e con il bicchiere».
Gioco della torre: un quadro, un brano, un libro, un film che non butterebbe giù, che salverebbe...
«Per l’arte La colazione sull’erba di Monet perché riassume il passato e anticipa il futuro. Per la musica L’arte della fuga di Bach, è una costruzione colossale. Riguardo ai libri la Crocifissione rosea di Henry Miller, c’è tutta la complessità del nostro mondo moderno. Infine il film, penso a Senso di Luchino Visconti, è il più bel riassunto epico del nostro Paese».
Ultima domanda su Dio.
«Sono religioso ma non baciapile. Il rapporto col piano di sopra è fondamentale e faccio di tutto per mantenere un dialogo costante».