Corriere della Sera, 6 novembre 2018
Ponti chiusi, un bunker e dodici giurati senza volto: El Chapo va alla sbarra
È un processo «speciale» che potrebbe diventare uno show e riservare sorprese. Perché alla sbarra c’è un re del crimine: Joaquín Guzmán, detto El Chapo, presunto capo del cartello messicano di Sinaloa. Nel tribunale di Brooklyn è iniziata la selezione dei giurati, una scelta complessa visto che l’imputato è come il Diavolo.
Il leader di un’organizzazione ramificata ben oltre i confini del Messico e ancora potente, è stato rinchiuso da mesi, in totale isolamento, nel Metropolitan Correctional Center di Manhattan, noto come Lit-tle Guantanamo, prigione di massima sicurezza.
Il criminale si è lamentato delle condizioni severe della cella, della luce che gli impedisce di dormire, del calo della vista, dei contatti impossibili con la moglie, la ex reginetta Emma Coronel. Le battaglie dei suoi legali non hanno impietosito gli americani. E come potrebbero davanti allo scempio compiuto dal boss e dai suoi uomini. Le autorità lo hanno isolato dal mondo per evitare che continui a manovrare ma anche per evitare che qualcuno gli faccia la pelle. Dunque i 12 giurati (oltre ai sei di riserva) saranno schermati dall’anonimato, i testimoni sono sotto tutela.
Alcuni criminali, compreso Damaso Lopez, uno dei collaboratori più stretti di Joaquín, ha accettato di deporre. Scelta che lo ha trasformato in un target. Attentamente esaminati gli accrediti per i media in quanto nei mesi scorsi si è ipotizzato che i cartelli possano infiltrarsi tra i giornalisti o ricattarli costringendoli a diventare complici.
Le autorità, inoltre, hanno mantenuto un grande riserbo sui trasferimenti del prigioniero dal cuore di New York all’aula. Ai problemi di sicurezza si aggiungono quelli logistici. Già in passato il ponte di Brooklyn è stato chiuso per i trasporti dei detenuti. E così è stato anche all’alba di ieri quando hanno portato Guzmán in tribunale. Possibile che decidano di sistemarlo nei sotterranei del tribunale o in un posto comunque vicino.
La procura gli contesterà le sue attività di signore del narcotraffico e alcuni omicidi, una piccola parte del massacro che in un decennio ha spazzato via in Messico 200 mila persone.
Ma alla Legge americana interessa scovare il tesoro da 14 miliardi di dollari e dimostrare come El Chapo sia stato davvero il nemico pubblico numero uno. Il giudice Brian Cogan ha avvisato l’accusa: non dilungatevi troppo sui dettagli macabri degli agguati, perché in questo caso «tronco tutto». Articoli, film, libri e documentari hanno svelato il mondo nero attorno a Joaquín Guzmán. La rete globale di 3500 società, la flotta di 500 aerei confiscati, le decine di semisommergibili impiegati per portare la droga —l’ultimo scovato il 3 novembre in Guatemala – e i tunnel clandestini inventati dagli ingegneri de El Chapo, mandati a studiare anche in Germania. Prima per beffare i doganieri americani, poi per farlo scappare dal penitenziario. Fuga conclusasi dopo l’incredibile storia dell’intervista a Sean Penn e Kate del Castillo, per la quale El Chapo aveva una passione. E forse, se lo hanno ripreso è anche per questi contatti, insieme a tradimenti e mosse segrete attorno ad un uomo che avrebbe molto da dire.
C’è chi ipotizza che Guzmán, oltre a gestire il potere con altri, sia stato solo un esecutore, un burattino. Ma per adesso è il boss dei boss. E chissà che la sua vicenda non fornisca nuove munizioni a Donald Trump nella sua campagna anti-immigrazione.