Corriere della Sera, 6 novembre 2018
Altro che spread, il rischio sono Pil e rating
Lo smottamento c’è stato, eppure sembra che per ora non prosegua più. Superata metà ottobre lo spread è entrato in un corridoio nel quale si sta muovendo senza nuove sbandate, in questa fase: lo scarto nei rendimenti fra titoli italiani e tedeschi a dieci anni era di 289 punti ieri sera (2,89%), venticinque sotto ai livelli di metà mese. E se il termometro del rischio Italia è entrato in una fase apparentemente stabile, almeno una ragione c’è: gli investitori ormai dispongono di quasi tutti i dati che aspettavano in questi mesi.
Il mercato ora sa che struttura ha la legge di bilancio, ha visto come hanno reagito le agenzie di rating che valutano la tenuta del debito, ha misurato la frenata dell’economia. Ha anche capito che l’Unione europea risponderà in modo aggressivo e queste informazioni, messe insieme, producono uno spread attorno ai 300 punti. L’Italia oggi paga su Lisbona lo stesso scarto nei rendimenti che sei mesi fa subiva da Berlino, ma se non altro di recente l’incertezza è calata e la volatilità dei titoli di Stato anche. Qualcuno nel governo può essere tentato di tirare avanti così fino alle europee di maggio. Il vicepremier Luigi Di Maio ieri lo ha detto al Financial Times, il suo collega Matteo Salvini lo ripete spesso: i populisti vinceranno anche quelle elezioni, scardineranno gli equilibri prevalenti a Bruxelles e allora molto cambierà. Resta giusto da capire come si presenta la strada da qua a là e se davvero la tregua dei mercati sarà stabile come sembra. Non necessariamente, a giudicare dai prossimi passaggi. Tra due giorni la Commissione Ue pubblicherà le sue proiezioni economiche e quelle sull’Italia saranno più pessimiste di quelle del governo: nel 2019 deficit piuttosto vicino al 3% del prodotto lordo, debito probabilmente in lieve aumento, crescita di gran lunga sotto all’1,5% al quale dice di credere il governo stesso. Fra luglio e settembre l’economia italiana si è fermata e tutti i segni dicono che qualcosa del genere si sta ripetendo in questi ultimi tre mesi dell’anno. In ottobre l’indice Pmi dell’industria per la prima volta da anni segnala una contrazione; anche Ita-Coin, il super-indicatore della Banca d’Italia che per primo ha segnalato la frenata, in ottobre resta su crescita zero.
La stessa perdita di fiducia fa sì che nel frattempo i capitali continuino ad uscire dall’Italia, come mostra il peggioramento di circa 40 miliardi dei saldi del sistema di saldi e pagamenti interno all’area euro (Target 2) da giugno. Ciò non aiuta le banche. Oggi quasi nessuna in Italia è in grado di emettere obbligazioni sul mercato per finanziarsi – di recente lo ha fatto solo Intesa Sanpaolo – dunque il terreno per alcuni fra gli istituti più piccoli e fragili non è saldo. In questo la Banca centrale europea può aiutare: sta discutendo il lancio nel 2019 di una nuova Tltro, un’operazione mirata di rifinanziamento con aste di liquidità a scadenza più lunga e costo zero.
Nel frattempo il governo dovrebbe mettere in musica i dettagli del reddito di cittadinanza e della controriforma delle pensioni, avendo risorse insufficienti rispetto alle promesse. Quindi, in marzo e aprile, prima Fitch e poi S&P dovranno dire se trasformano in declassamento all’ultimo gradino prima di quota «spazzatura» le «prospettive negative» appena assegnate all’Italia. Il tutto, sotto la pressione di una procedura europea sui conti che nel frattempo andrà avanti con la minaccia di sanzioni pecuniarie. Né appare probabile che le europee di maggio possano sovvertire a favore dei populisti gli equilibri di Bruxelles: ai sondaggi di oggi, secondo «pollofpolls.eu», nell’Europarlamento una colazione di popolari, socialisti-democratici e liberali avrebbe il 55%, mentre i sovranisti alla Salvini sarebbero fermi al 15%.
Resta certo ancora possibile che il governo M5S-Lega sfrutti una tregua dei mercati, superi l’inverno e centri i suoi obiettivi. Ma da oggi alle Europee, sarà come attraversare un campo minato su due gambe che non si muovono all’unisono.