La Stampa, 6 novembre 2018
Quota 100 svantaggia le donne
«Quota 100» è stata inserita nella manovra e prevede la possibilità di andare in pensione a 62 anni, avendo lavorato e versato contributi per almeno 38 anni. Costerà 6 miliardi e 700 milioni in un anno. Ebbene «quota 100» premia in 9 casi su 10 gli uomini e in un caso su tre persone con un trattamento pensionistico superiore alla media.
Si tratta nel
40% dei casi di dipendenti pubblici. Le donne ne sono quasi escluse, appena sfiorate, riguarda loro per il 10% dei casi.
Eppure le donne non vivono una buona situazione da un punto di vista pensionistico. Le loro pensioni sono più basse di quelle degli uomini del 37%. E’ una rilevante differenza. Inoltre le donne con pensione inferiore ai 1000 euro sono il doppio degli uomini.
Lo svantaggio femminile nelle pensioni non deve meravigliare. Rappresenta il precipitato del percorso a ostacoli che è il lavoro per le donne e del cumulo degli svantaggi da loro collezionati nel corso della vita lavorativa. Le criticità nell’accesso, nella permanenza, e nella carriera lavorativa sono alla base dello svantaggio anche nelle pensioni.
Basti pensare che un quarto delle donne interrompe il lavoro alla nascita del figlio, che le donne utilizzano ampiamente il part-time, e spesso non per scelta, svolgono lavori più precari e intermittenti ed hanno ancora difficoltà nei percorsi di carriera, specialmente nel raggiungere posizioni apicali. Sono costrette a tante, troppe, rinunce.
Prima le donne andavano in pensione principalmente per vecchiaia, cioè raggiunti i limiti di età, gli uomini invece per anzianità di servizio. Dopo la riforma Fornero le cose sono cambiate e le donne escono di più per anzianità, perché i requisiti di vecchiaia sono diventati molto più alti.
Mi chiedo, considerando che il livello di disuguaglianza tra i redditi pensionistici di uomini e donne è così elevato e che quota 100, oltre a costare molto, raggiunge poche donne, perché non agire per ridurre le disuguaglianze di genere nelle pensioni?
Si potrebbe riconoscere alle donne uno sconto di anni di contributi in base al numero di figli o di persone disabili a carico. Ad esempio 1 anno e mezzo per un figlio, tre anni per due e così via. Sarebbe una misura positiva, finalmente un simbolico riconoscimento da parte dello Stato alle donne, a parziale compensazione delle discriminazioni che hanno dovuto subire nel corso della loro vita lavorativa , e dei sacrifici di coloro che per una vita intera hanno svolto non uno ma due lavori contemporaneamente, in azienda ed in casa, per giunta in assenza di servizi sociali adeguati. Potrebbe essere una misura per l’equità di genere e di giustizia sociale.
L’altra, quota 100, molto costosa, riguarderebbe per il 90% gli uomini, che stanno meglio.
Qualcuno potrebbe dire, «possono utilizzare l’opzione donna», quella sperimentata dal precedente governo, che prevede che le donne possano andare in pensione a 58 anni con 35 anni di contributi. Purtroppo non è una buona soluzione perché è stato stimato che le donne ci perdano anche più del 20% dell’importo di pensione, che è già molto più basso di quello degli uomini. Quest’opzione, quindi, potrebbero permettersela solo le donne in condizioni economiche migliori.
Quando fu elevata l’età pensionabile delle donne Emma Bonino propose di non disperdere il tesoretto di risparmio che si sarebbe liberato per lo Stato, un grande tesoretto, ma di investirlo in servizi e infrastrutture sociali per alleviare il sovraccarico di lavoro di cura delle donne, per compensare le loro rinunce e le loro maggiori fatiche di vita e di lavoro. Nessuno la ascoltò.
Purtroppo quel tesoretto andò a finire, come al solito, nel calderone, e nessun deciso passo in avanti da quel momento è stato fatto. Abbiamo già perso una occasione storica per investire una cifra cospicua nel welfare della cura. Cerchiamo di non introdurre ulteriori elementi di svantaggio per le donne.