il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2018
Perché i comuni non demoliscono
Nove morti dentro una villetta abusiva che avrebbe dovuto essere demolita dal 2011, data in cui il Tar di Palermo dichiarò chiuso il contenzioso nato dal ricorso presentato dai coniugi Antonino Pace e Concetta Scurria, proprietari dell’immobile poi affittato alla famiglia Giordano, cancellata dalla massa di acqua e fango. Dai primi rilievi saltano fuori le prime responsabilità omissive, in questo caso del Comune di Casteldaccia, guidato dal sindaco Giovanni Di Giacinto (Pd) che “a caldo” aveva tentato di scaricare ogni accusa sul Tar: “Sul ricorso non è intervenuto” – aveva detto accusando i giudici e costringendo l’ufficio stampa del Consiglio di Stato a una inusuale ma ferma smentita: “Nel 2011 il giudizio al Tar si è concluso e l’ordinanza di demolizione del sindaco non è stata annullata; né il Comune si è mai costituito in giudizio. Quindi, in questi anni, l’ordinanza di demolizione poteva – e doveva – essere eseguita. Non solo. Di Giacinto e il suo vice Fabio Spatafora sono stati citati in giudizio nell’agosto scorso per un danno erariale di 239 mila euro dalla Procura della Corte dei Conti: negli ultimi dieci anni, dal 2007 al 2017, “avrebbero consentito agli autori degli illeciti di continuare a beneficiare degli immobili realizzati abusivamente, senza corrispondere alcuna indennità di utilizzo, né la tassa sui rifiuti e gli altri tributi previsti dall’ordinamento, con conseguente danno per le casse del Comune”.
È la foto della permissività che ha tenuto in piedi la villetta della tragedia, a cui il sindaco di Casteldaccia, deputato regionale del Pd nella scorsa legislatura, non sembra estraneo anche quando si tratta di riscuotere le tasse dei contribuenti e che l’anno scorso si è trasformata in un’accusa di abuso di ufficio: Di Giacinto è tuttora processato a Termini Imerese per avere compiuto sgravi per oltre 120 mila euro sul portale Equitalia, “operando con una propria password” a favore di cittadini di Casteldaccia destinatari di cartelle esattoriali, dalla tassa sui rifiuti, all’Imu, alle multe per violazioni del Codice della strada.
E mentre i giudici incassano anche la solidarietà dell’Associazione nazionale magistrati amministrativi, la tragedia del Milicia appare come l’ennesimo dramma dell’abusivismo in una terra in cui demolire un immobile abusivo è un’impresa titanica.
In Sicilia pendono quasi ottomila ordinanze di abbattimento, ma solo poco più di 1.000 sono state messe in esecuzione. Ora il presidente della Regione Musumeci minaccia l’invio di commissari ad acta visto che alla sua nota del maggio scorso (reiterata a settembre e inviata ai 390 Comuni dell’isola) hanno risposto in 39, appena il 10 per cento. E tra questi non c’è il Comune di Casteldaccia, al centro del territorio siciliano più a rischio alluvioni, secondo il report Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), rischio puntualmente segnalato invano nella “relazione del marzo 2012 per la Revisione del Piano regolatore generale’’ che parlava di “aste torrentizie in fase di approfondimento e da aree esposte a possibili fenomeni di esondazione”.
Per la provincia di Palermo non è per nulla un’eccezione: secondo un monitoraggio del procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, 75 Comuni su 82 non abbattono le case abusive. Lamentano mancanza di fondi, ma come ha denunciato Scarpinato nel marzo 2017, “ciò che è più grave è che al costruttore abusivo non viene irrogata la sanzione prevista dalla legge fino a 20 mila euro”.
“Se fosse stata applicata in tutti i casi in cui è stato ingiunto di demolire – ha concluso il pg – arriveremmo ad alcuni milioni di euro necessari a finanziare i Comuni per le demolizioni”.
Cittadini e amministratori spesso legati da un patto di resistenza illegale che ha partorito anche soluzioni bizzarre di “legalità elastica”: a Triscina, capitale siciliana dell’abusivismo, dove le case sono costruite sulla spiaggia, hanno proposto di riempire il mare di sabbia per ripristinare il limite dei 150 metri imposto dalla legge.