Corriere della Sera, 5 novembre 2018
House of Cards, i trucchi per tenere ancora in vita Kevin Spacey
«Detesto “Signora”. Suona come se gestissi un bordello e non una nazione», risponde Claire Underwood al giovane soldato impacciato e incerto su come rivolgersi al presidente. E, subito dopo, di fronte a un’altra recluta che dubita del suo piano strategico militare, si rivolge così: «Me lo avrebbe chiesto se fossi stata un uomo?».
La sesta e ultima stagione di House of Cards (Sky Atlantic) si apre nel segno di una donna alla guida degli Stati Uniti e tradisce una doppia impronta: la rivendicazione orgogliosa del primo presidente americano di sesso femminile, e quell’inestirpabile senso di subalternità di genere che spesso popola i luoghi del potere. L’ultimo atto del political drama più riuscito e apprezzato degli ultimi anni vive e prolifica sul mito dell’assenza: Kevin Spacey-Frank Underwood non c’è più, scopriamo che è morto nel letto accanto alla moglie, eppure incombe nei ricordi dei protagonisti, nelle vecchie e nuove trame della politica americana.
Tolto di mezzo Spacey per le vicende di molestie, la sesta stagione consacra la figura di Claire, nella sempre impeccabile interpretazione di Robin Wright; si carica sulle spalle non solo il governo degli Usa e il vuoto lasciato dal marito ma cerca di tenere viva e accesa l’intera serie, a rischio di sbandamento. Ed è proprio lei, la glaciale Claire, la più decisa a liberarsi del peso ingombrante del marito, a non voler apparire come una vedova illustre. E quando si rivolge al pubblico, in quell’espediente narrativo shakespeariano, lo fa per smarcarsi dal fantasma del marito («Vi ricorda Francis?», «Io non farò come lui, io ho intenzione di dirvi la verità»). Ma l’unica verità, a ben vedere, è che senza Spacey l’intero impianto rischia seriamente di vacillare e la sua assenza percepita e così costantemente esibita è in realtà l’unico modo per tenerlo dentro la storia, per farci credere che non sia cambiato nulla.