Corriere della Sera, 5 novembre 2018
In morte di Bruno Caruso
Ha raccontato sin dagli anni Sessanta la Sicilia della sofferenza e del riscatto con dipinti e disegni diventati bandiere d’impegno civile. Ma anche materia di «processi persi e vinti allo stesso tempo, contro boss e potenti». Lo diceva con un filo di ironia Bruno Caruso fino a quando, attorno a questo grande pittore siciliano, non è calata l’ombra di un oblio forzato per i suoi amici palermitani, che non riuscivano più a raggiungerlo nemmeno per telefono nella villa romana sull’Appia, dove si era trasferito con la moglie Lidia Olivetti, figlia dell’imprenditore Adriano, morta due anni fa.
Se ne è andato pure lui, ieri, a 91 anni. Ma se ne è andato male. Dopo mesi di sofferenza per una malattia e dopo due anni di inferno, interdetto dalla figlia Marina, avuta dal primo matrimonio con la gallerista Vivi Maggio, in lite con il fratellastro, Roberto, figlio del pittore e della signora Lidia. Una brutta storia «di eredità contesa, di patrimoni erosi, di quadri e documenti sequestrati da un giudice e messi all’asta», come commenta amareggiato uno dei signori del vino, Gigi Planeta, amico che frequentava Caruso anche ai tempi di Renato Guttuso e Leonardo Sciascia. L’epoca in cui si incontravano nella appena nata casa editrice di Elvira Sellerio, nella bottega d’arte di Maurilio Catalano o alla Tavolozza, la galleria della prima moglie, deceduta l’anno scorso. Allora Caruso irrompeva dalle prime pagine de «L’Ora», spesso evocate per le ironiche caricature di Fanfani, Lima e Gioia, di Luciano Liggio e Vito Ciancimino, senza risparmiare il procuratore Scaglione e Bernardo Mattarella. Acrobatici mix sfociati in processi. Quelli «vinti e persi», come ripeteva nello studio sul Colosseo: «Assolto in primo grado, poi condannato ad appena 30 mila lire, senza l’iscrizione nel casellario giudiziario».
Non avrebbe immaginato di chiudere con gli amici di sempre e ritrovarsi con un’interdizione che gli impediva perfino di vendere un quadro, come si rammarica a Palermo il vegliardo Gerlando Micciché, padre del banchiere Gaetano e di Gianfranco, il presidente dell’Assemblea siciliana: «Una vicenda dolorosa. Bruno mi diceva di volere tornare a Palermo, ma non so se ci si riuscirà neppure ora». Triste epilogo per l’artista: «Sono partito mille volte – diceva – ma non me ne sono mai andato. Fuori mi manca l’aria, culturalmente, interiormente...». Un rapporto comunque tormentato con la sua terra, dove aveva avvertito «la necessità di raccontare la realtà». L’arte come testimonianza. Illustrando testi sugli arabi in Sicilia, Federico II, Risorgimento e Gattopardo. E raccontando i «carusi» delle miniere, i contadini, i siciliani decisi a opporsi alla mafia e le donne, tante, molte con chiome ramificate come gli intrecci di secolari magnolie.