Corriere della Sera, 5 novembre 2018
Il paradosso di Trump: economia Usa ai massimi, però lui parla d’altro
NEW YORK Disoccupazione sempre ai minimi (3,7 per cento), altri 250 mila posti di lavoro creati anche a ottobre nonostante il rallentamento della congiuntura mondiale. L’incremento dei salari che per la prima volta da anni supera il 3 per cento. Gli ultimi dati pubblicati prima delle elezioni indicano che l’economia americana continua a tirare. Dovrebbe essere il cavallo di battaglia di Trump in vista del voto.
E invece il presidente continua a puntare sui temi identitari, ad agitare lo spettro di onde migratorie clandestine, ad alimentare paure, soprattutto quella di infiltrazioni di terroristi travestiti da lavoratori stranieri. I successi economici li cita, ma sono solo brevi incisi nei suoi comizi.
I più stupiti sono gli stessi repubblicani, a cominciare dai candidati a Camera e Senato. Un anno fa, pur essendo rigoristi in materia di bilancio, hanno votato una riforma fiscale che riduce le tasse di ben 1500 miliardi di dollari – miliardi che si andranno in gran parte ad aggiungere a un debito pubblico già stellare – proprio perché convinti che gli sgravi e il loro impatto su salari e occupazione avrebbero messo il turbo alle loro campagne elettorali. Trump, invece, li ha spiazzati. Perché? Secondo alcuni dei suoi nemici si è accorto che la festa è finita: la Borsa è da quasi un mese in calo e con l’Europa che torna a sfiorare la crescita zero mentre anche la Cina rallenta, è improbabile che l’economia Usa possa continuare a crescere al 3,5 o 4% come promesso dal presidente. E allora Trump, gli occhi rivolti alla rielezione nel 2020, preferisce continuare a giocare sulle paure: la strategia che l’ha portato alla vittoria del 2016.
Un’interpretazione forse troppo radicale: certo, la crescita Usa è sostenuta, almeno in parte, col ricorso a una sorta di anabolizzanti, gli stimoli fiscali, una medicina da tirare fuori nei momenti difficili che è stata invece somministrata da Trump a un’economia in piena espansione. L’America prima o poi pagherà il conto di queste distorsioni: con una crescita dei tassi che fa salire il costo del denaro o con una crisi del debito. Ma è anche vero che Trump potrebbe rivendicare successi ai quali, due anni fa, nessuno credeva: dalla ripresa dell’occupazione anche nell’industria manifatturiera, che sembrava destinata a un declino inarrestabile, al nuovo accordo commerciale con Messico e Canada, apprezzato perfino dai sindacati americani.
Se il presidente non si dilunga su questi dati positivi è anche perché il vecchio adagio secondo il quale molti americani votano col portafoglio è vero solo in parte: nelle elezioni di mezzo termine l’economia conta meno che alle presidenziali. E Trump, che ha «drogato» i fan con comizi pieni di invettive e parole d’ordine incendiarie, fatica a cambiare registro. L’ha detto lui stesso: quando parlo di economia, dopo cinque minuti la gente mi chiede altro.
Ma forse si è accorto anche di altro: stando ai sondaggi, l’economia, sconti sulle tasse compresi, sta funzionando meno bene del previsto come leva per recuperare consensi. Tre i motivi principali: molti elettori si sono accorti che i soldi recuperati grazie agli sconti fiscali se ne vanno per i maggiori costi dei mutui-casa e delle carte di credito (a causa dell’aumento dei tassi), per la sanità e la scuola dei figli. I democratici, poi, hanno diffuso, con una campagna pubblicitaria martellante (e costosissima), l’idea che la riforma fiscale sia un regalo ai ricchi. Le analisi di Cook Report, l’istituto più serio di previsioni elettorali, mettono infine in luce che i 73 collegi più competitivi, nei quali si deciderà l’esito di queste elezioni, sono quasi tutti in zone benestanti: più difficili da conquistare alimentando paure, ma anche non facili da convincere con contabilità economiche semplicistiche.