Corriere della Sera, 5 novembre 2018
Strage in Sicilia, era tutto scritto già nel 2008
Non si tiri in ballo la violenza della natura. Anche quella, ovvio, ha avuto un peso devastando le valli venete. Facendo crollare sui passanti gli alberi nei viali delle città. Portando distruzione e strazio in Liguria. L’uomo, però, ci ha messo del suo. Più ancora a Casteldaccia, dove due famiglie sono state spazzate via dalla piena del torrente Milicia.
P ietà per i morti. Vecchi, donne, bambini. Ma tornano in mente ancora una volta, insieme con le parole del lutto e del dolore, quelle di Jean-Jacques Rousseau sul terremoto di Lisbona del 1755: «Non è la natura che ha ammucchiato là ventimila case...».
Non doveva stare lì, a pochi passi dalla fiumara, quella casa abusiva invasa dalle acque a Casteldaccia. A una ventina di chilometri da Palermo. Erano dieci anni che doveva esser abbattuta. Dal lontano 2008 quando i proprietari, che a quanto pare non ci vivevano neppure preferendo affittarla o prestarla ad amici («abuso di necessità»?), avevano ricevuto l’ordine esecutivo di demolizione. Ma era bastato il ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale perché tutto l’iter burocratico si bloccasse per mesi, per anni, per lustri. Esattamente come è quasi sempre successo, soprattutto nel Mezzogiorno.
Basti ricordare le reazioni belluine, un paio di anni fa, contro il sindaco di Licata Angelo Cambiano che aveva cercato di ripristinare la legge abbattendo almeno le più scandalose delle case fuorilegge lungo litorale (coro di abusivi: «perché proprio noi?») e rimosso infine dal consiglio comunale. Che evidentemente rimpiangeva Giovanni Saito, eletto e rieletto sindaco per otto volte (otto!) dagli anni Sessanta al nuovo secolo senza mai accorgersi del dilagare intorno a lui di villette e villini e casette abusivi. O rileggere di troppe promesse elettorali, come quella di Ciro Caravà, sindaco pd di Campobello di Mazara, che fece la campagna elettorale giurando che non avrebbe mai permesso di abbattere le case abusive di Tre Fontane, un orrendo ammasso di edifici tirati su a ridosso dell’area archeologica di Cave di Cusa, Selinunte. O le campagne a favore dei soliti «abusivi per necessità» sparpagliati a decine di migliaia lungo tutte le spiagge calabresi, campane, siciliane. Come a Triscina dove, per fermare le ruspe prossime a buttar giù dopo decenni almeno i villini più vicini al mare si son fatti venire un’idea grandiosa: erigere delle barriere in acqua per «allontanare il mare».
«Quello che davvero dà dolore», dice il sindaco di Casteldaccia, «è che non siamo riusciti a buttar giù quella casa nonostante le denunce. Quei nove poveretti non avrebbero fatto quella fine». Vedremo cosa dirà la magistratura. Certo è che la tragedia della cittadina palermitana poteva essere evitata. E non lo dicono solo i presidenti di Legambiente nazionale e siciliana Stefano Ciafani e Gianfranco Zanna, che si chiedono «quanti morti e quante tragedie dovranno ancor accadere prima che si comprenda che la vera e unica opera pubblica che è necessaria al Paese è la messa in sicurezza dei territori?» Lo dicono, tra gli altri, due documenti scovati ieri da Fabrizio Feo del Tg3 Sicilia.
Il primo è una Relazione geologica della Provincia Regionale di Palermo datata 2008. L’anno dell’ordine di demolizione mai eseguito della casa abusiva di cui parliamo. Denuncia il rapporto: «La concentrazione di popolazione e di costruito, di attività e di funzioni all’interno della pianura costiera e delle medie e basse valli fluviali («Oreto», «Eleuterio», «Milicia», «San Leonardo») è fonte di degrado ambientale e paesaggistico e tende a depauperare i valori culturali e ambientali specifici dei centri urbani e dell’agro circostante».
Degrado su cui torna una Relazione del marzo 2012 per la Revisione del Piano Regolatore Generale. Dove, a pagina 13 , si legge: «In merito alla pericolosità idrogeologica bisogna precisare che il reticolo idrografico che interessa il territorio comunale di Casteldaccia è piuttosto fitto ed è caratterizzato da aste torrentizie in fase di approfondimento e da aree esposte a possibili fenomeni di esondazione».
Di più: cita come «corsi d’acqua da salvaguardare, da vincolare e da attenzionare il Vallone di Casteldaccia, il Vallone Perriera, il Vallone Cubo e il Fiume Milicia» con i «loro numerosi tributari». E qua e là si insiste, tirando in ballo vari studi del 2000, del 2002 e del 2006, sul tema della mappatura delle zone di «pericolosità e a rischio idraulico di esondazione», invocando ad esempio la necessità «indispensabile» di estendere la «fascia di rispetto a non meno di 20 metri».
In ambienti così, ovvio, l’abusivismo è un problema supplementare che amplifica i rischi. E la mancata demolizione degli edifici costruiti in aree franose o addirittura nei letti dei torrenti smette di essere una polverosa pratica burocratica, come spesso troppi Tar intendono, per diventare una questione vitale per gli stessi cittadini incoscienti e ciechi davanti ai pericoli. Ricordate i trentasette morti di Giampilieri e Scaletta Zanclea, sepolti sotto il diluvio e le frane nell’autunno del 2009? Accorso sul posto, il vescovo di Messina Calogero La Piana («gli occhi carichi di pietà, il tono severo», scrisse Felice Cavallaro) disse: «Non è colpa della natura. Qui le responsabilità sono terrene. Adesso è tempo di solidarietà e di soccorso. Ma deve pur essere indicata la vera colpa».
Parole difficili da dimenticare. E già sentite troppe volte nel nostro bellissimo e sciagurato paese. Parole troppo spesso inutili, a rileggere l’elenco ricostruito qualche anno fa da Toni Mira su «Avvenire» di tutti i processi per tanti disastri «non naturali» finiti nel nulla. Inghiottiti dal fangoso scorrere del tempo...