Corriere della Sera, 5 novembre 2018
Bolsonaro e i giudici
Il trionfo elettorale di un personaggio discutibile e discusso come Jair Bolsonaro è stata una pessima notizia non soltanto per il Brasile, ma anche per l’America Latina tutta e, probabilmente, per il mondo intero. Oltretutto dopo la vittoria dell’ex capitano dei paracadutisti nostalgico delle giunte militari, va registrato un primo aspetto inquietante di questa presidenza: la «promozione» di Sérgio Moro. E pensare che il magistrato Moro, all’epoca in cui dava la caccia all’ex presidente del Brasile Inácio Lula da Silva e, successivamente, a Dilma Rousseff, così aveva risposto, ad un giornalista del quotidiano Estado de São Paulo che gli chiedeva se avesse in progetto di entrare in Parlamento: «La mia missione è combattere la corruzione che domina la vita politica brasiliana, non avrebbe senso passare dall’altra parte». Poi la Rousseff è stata destituita, Lula è andato in prigione (per essersi fatto «comprare» con un attico non lussuoso nel quale, peraltro, non è mai andato a vivere), Bolsonaro ha vinto le elezioni presidenziali e Moro si è ricreduto. Il nuovo presidente gli ha offerto il ministero della Giustizia e il magistrato ha detto immediatamente di sì: «Ho accettato questo incarico perché mi è stato assicurato che la lotta alla corruzione e al crimine organizzato sarà un elemento centrale del programma del nuovo esecutivo» è stata la sua motivazione.
I n questo modo ha, per così dire, autorizzato la supposizione che si sia trattato di una sorta di compenso per l’attività da lui svolta a favore di una parte politica, quella populista reazionaria, a danno del Partido dos Trabalhadores che era stato al potere negli anni precedenti. Sarà forse anche per quest’ultimo dettaglio che stavolta la sinistra di tutto il mondo (anche quella italiana) ha notato le anomalie dell’intera faccenda. Prima tra le quali, l’uso di un’inchiesta giudiziaria, «Lavajato» (autolavaggio), per colpire il Partito dei lavoratori quando sondaggi e voti parziali lo davano ancora nettamente in testa. Intendiamoci: la distrazione di fondi Petrobas, colosso petrolifero di proprietà pubblica, se dimostrata, è un grave reato su cui è inutile attardarsi in chiacchiere; ma qualche sospetto di accanimento nei confronti di Lula è legittimo. Comunque delle sentenze (che pure possono essere discusse) si deve solo prendere atto: l’ex presidente brasiliano è stato condannato a dodici anni di carcere e all’interdizione della possibilità di candidarsi alle ultime elezioni. Punto.
Che morale possiamo trarne qui in Italia dove abbiamo assistito da oltre venticinque anni a qualcosa di più o meno simile a quel che adesso sta accadendo in Brasile? Per rispondere a questa domanda ci siamo fatti aiutare da un non italiano che dà lustro alla sinistra liberale europea: il cofondatore di El País Juan Luis Cebrián, il quale si è soffermato con qualche osservazione su questo affaire (il suo testo è stato pubblicato da La Stampa ). Cebrián ha riferito di «voci insistenti» che facevano riferimento «a un piano premeditato contro il potere legittimo del Pt» (il succitato Partito dei lavoratori guidato da Lula) con il quale «forze più o meno occulte andarono all’attacco della presidenza di Dilma Rousseff» per far poi vincere le elezioni a Bolsonaro. Da questo piano, scrive Cebrián, ebbe inizio «in modo apparentemente rispettoso degli usi democratici, anche se non altrettanto delle regole del gioco», un’«offensiva neofascista» culminata nella vittoria elettorale di Bolsonaro. Cebrián ci informa poi che gli oppositori di Bolsonaro accusano Steve Bannon di aver contribuito a «sobillare i social network contro i partiti di sinistra». A suo dire, però, gli esponenti dell’opposizione muovono queste accuse «senza portare alcuna prova». E in seguito ammette che la vittoria del neopresidente si deve «all’indignazione popolare per le conseguenze della crisi finanziaria ed economica e all’aumento delle disuguaglianze». Che la corruzione «non cessa di essere un pretesto per suscitare ulteriore malcontento». E aggiunge: c’è «chi sostiene che se si fosse espresso oltre il 20% di chi si è astenuto o ha annullato il voto, il risultato sarebbe stato diverso». Anche se, ammette, «è un argomento discutibile».
Parole e analisi che ne echeggiano di simili già ascoltate in Italia negli scorsi tre decenni. Concetti di cui, dietrologie a parte, non sono difficili da cogliere le intime contraddizioni. Cosa è che ha portato ai diversi risultati elettorali oggi in Brasile, ieri in Italia: un complotto di «forze più o meno occulte» o una legittima manifestazione del malcontento? Entrambe, si dirà. Questa risposta però non ci aiuta a comprendere cosa da qualche tempo stia succedendo ad ogni latitudine del mondo intero. Chi ha votato quei leader ha dato un voto di protesta (forse addirittura motivata) o è stato sapientemente manipolato? Cerchiamo allora ulteriori lumi nello scritto di Cebrián.
I leader della sinistra e anche quelli liberal-moderati, secondo lui, «hanno dimenticato che l’insicurezza dei cittadini e la crescente violenza delle mafie sono tra i motivi del consenso elettorale di chi promette legge e ordine, anche a costo di mettere a ferro e fuoco il Paese». Giusto. Allora sarebbe per noi necessario prendere atto di questa «dimenticanza». E dovremmo, di conseguenza, elaborare un credibile piano per dare, ognuno al proprio Paese, un di più di legge e ordine. A patto che il Paese non sia «messo a ferro e fuoco», le misure law and order – anche le più severe – non dovrebbero essere considerate un male in sé.
E chi se ne dovrebbe dar carico? Molti democratici brasiliani, ci informa Cebrián, guardano ai tribunali come all’unica «barriera contro la deriva autoritaria». Anche se il caso Lula è lì a dimostrare quanto un settore considerevole della magistratura brasiliana sia politicizzato, secondo quel che sostiene l’ex direttore del País, «la speranza in una giustizia indipendente appare l’ultimo baluardo per proteggere le minoranze dallo tsunami scatenatosi con l’elezione di Bolsonaro». Se questo significa sperare che almeno una parte della magistratura del Brasile dia adesso prova di indipendenza, non si può che essere d’accordo con Cebrián. Anche se le flebili proteste dei magistrati al cospetto della scesa in campo di Sérgio Moro non autorizzano a ben sperare. Ma se invece quella di Cebrián vuol essere un’esortazione a confidare nei giudici, i quali – per contrastare Bolsonaro – dovrebbero farsi supplenti nelle funzioni dell’opposizione, da qui, dall’Italia, per esperienza, dovremmo suggerire ai brasiliani di non fidarsi dei consigli di Cebrián.