Libero, 5 novembre 2018
Storia di Giochino Rossini (due puntate)
Rossini, del quale ricorre il centocinquantenario della morte – e ne parleremo – trascorse a Napoli sette anni: dal 1815 al 1822. Era il compositore di Corte e il direttore artistico del San Carlo. Questi sette anni sono capitali per la storia della musica. Nel corso di essi egli compose (non per Napoli) i suoi capolavori comici, che dalla categoria del comico trapassano all’indagine del cuore umano nella sua abiezione e nella sua altezza (Il barbiere di Siviglia), e nella stessa metafisica del comico e della passione (Cenerentola). Ma per Napoli scrisse una panoplia di Tragedie in musica che sono tra i vertici dell’arte italiana: dall’Otello al Mosè alla Donna del lago all’Armida all’Ermione. Gioacchino non apparteneva alla Scuola Napoletana, sebbene l’opera di Scarlatti, Pergolesi, Jommelli, e soprattutto Cimarosa e Paisiello, sia la fonte primaria del suo stile; ma a Napoli, ch’era ancora la città più importante per l’insegnamento della musica, d’insegnare non ebbe tempo: occupato com’era, oltre che nel “matto e disperatissimo” impegno compositivo, in un eros indefesso e nella incredibile crescita della sua cultura e della sua personalità. Nel 1816 era morto Paisiello. Direttore del Conservatorio era divenuto Nicola Zingarelli, nato nel 1752, una sorta di fossile storico, diciamo un garbato Paisiello-Cimarosa di serie b. Passatista, però, e pervicace, quanto a dottrina.
VISITA DI CORTESIA
Si tramanda aver egli detto che se Mozart non fosse morto così giovane, avrebbe potuto scrivere qualcosa di buono: una bestialità simile nemmeno un baggiano da commedia può averla pronunciata, ma vale, come leggenda, a mostrare l’immagine che di lui si aveva. Vero è invece ciò: una volta che Rossini effettuò in Conservatorio una visita di cortesia (avrà avuto ventisei anni), Zingarelli lo accusò di «guastargli tutta la scuola», visto che i giovani imitavano soltanto lui. E il Cigno, serafico: «Avete ragione, illustre Maestro, Non dovrebbero imitare che Voi!». E tuttavia Zingarelli non era un inetto quale insegnante, se alla sua scuola si sono formati due sommi compositori, Mercadante e Bellini. Ambedue dalla musica di Rossini vennero folgorati, e ne serbano le tracce per tutta l’opera. Ma sin dall’inizio posseggono qualcosa di proprio e diverso. E interessantissimo è il vedere come l’influsso e l’originalità si mescolino in modo miracoloso al sorgere di una storia creativa. Nel febbraio del 1825, pochi giorni dopo la morte di re Ferdinando, nel teatrino del Conservatorio Zingarelli volle far rappresentare il saggio col quale il ventitreenne Bellini passava dallo stato di studente a quello di Maestro. È un’Opera «semiseria», ossia mista di comico e patetico, in tre atti su testo di uno dei più ingiustamente diffamati librettisti italiani, Andrea Leone Tottola: ma, giusta una moda d’imitazione francese che da noi fu effimera, con parti recitate in prosa. Il titolo è Adelson e Salvini: solo apparentemente profetico degli attuali lumi di luna, visto che Salvini è un geniale pittore italiano approdato in Irlanda e ivi quasi impazzito per amore. Le parti recitate, ma anche alcune in musica, consentono la presenza nella trama di Bonifacio, un servitore che Salvini s’è portato da Napoli: questi si esprime in una così saporosa e pretta lingua napoletana (che, col solito errore, la letteratura musicologica definisce «dialetto») che i suoi dialoghi sono un capolavoro comico assoluto, in ispecie là ove egli latineggia e toscaneggia. Or questo saggio scolastico dell’altro Cigno, quello di Catania, è già alta arte: il genio si vede subito anche quando è costretto a dibattersi fra «maniera», impronta rossiniana e carattere suo proprio; e potremmo adoperare un verso di Virgilio a sintetizzare il concetto, incessu patuit dea, «dal solo incedere si manifesta la Dea». Nelle parti più apertamente buffe e, o, comiche, Bellini rossineggia: per esempio, in quel veloce «declamato» vocale sopra motivi tessuti dall’orchestra che, se non inventato dal Pesarese, di certo venne da lui consacrato come stilema tipico per un secolo; e nell’ampia, quasi monumentale struttura del Finale del I atto. Ma rossineggia con un’eleganza e un distacco mirabili che sarebbero stati apprezzati per primo da Rossini: il quale, più anziano di Bellini di soli nove anni, lo trattò sempre con paterno, protettivo affetto, e alla sua morte prematura precipitò in un’autentica prostrazione. Senonché, all’elegante manierismo il ventitreenne coniuga un ductus suo proprio, e inconfondibile. C’è la molle elegia, rorida di pianto, che si trasfigura in «Bello Ideale» in bilico tra Neoclassicismo e incipiente Romanticismo.
PATHOS FREMENTE
Salvini è caratterizzato da un pathos fremente insieme e languido, la sua melodia sempre carica di «bemolle», tra il Fa minore, il Do e il Sol minore: nel terzo atto canta una grande Aria preceduta da una scena in un Recitativo accompagnato di continuo franto e trapassante da un’agogica all’altra ch’è un quadro straordinario di una passione così eccessiva da farsi patologica. E c’è l’Aria di Nelly, in Re minore (ancora), Dopo l’oscuro nembo, ch’è un altro incunabulo del Romanticismo italiano: viene da Rossini, ma al tempo stesso segna una svolta radicale nella musica italiana. Parlo di un esemplare allestimento del saggio scolastico già capolavoro di Bellini. Forse qualcuno saprà che il mio disgusto verso l’attuale vita musicale mi ha portato con sollievo a rinunciare ad andare al teatro d’Opera e al concerto. Nel 2018 ho assistito a due concerti e a un solo spettacolo operistico, appunto Adelson e Salvini al «Massimo Bellini» di Catania, nella partitura preparata da Fabrizio Della Seta in vista della prossima edizione critica che gli si dovrà. Una garbata ed elegante regia di Roberto Recchia, ma soprattutto sul podio Fabrizio Maria Carminati. A Vittorio Feltri ricordo che questo concertatore è un suo concittadino: uno dei pochi Maestri serî, preparati, professionisti, antidivi, che oggi si contino, il quale alla tecnica e alla cultura unisce la sensibilità; e per questo, pur apprezzato, non fa una carriera adeguata ai meriti. La carriera la fanno i ciarlatani che dirigono a orecchio, si agitano, saltano, tengono la bocca aperta, cantano dal podio, quelli che piacciono alla vera silloge di cretini-furbastri costituente i soprintendenti italiani. Fra i cantanti ricordo due veri talenti lirici e melici, il tenore Francesco Salvini e il soprano José Maria Lo Monaco; mentre il «buffo» Bonifacio è strepitosamente interpretato da Clemente Antonio Daliotti.
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Seconda puntata. Fin qui, abbiamo incontrato il Rossini “severo”. Ma c’è Il Barbiere. Sotto un certo profilo, può considerarsi l’ideale stesso dell’Opera comica. Hegel e Schopenhauer andarono d’accordo nell’anteporlo alle stesse Nozze di Figaro. V’è la personalità esplosiva del protagonista Figaro, qualcosa che la musica non aveva conosciuto. Autoritratto del compositore? Impossibile, per un uomo di quella finezza spirituale e di una psiche la quale si mostra negli anni vieppiù sofferente: pur se, all’epoca della composizione, era ancora un giovane gioviale, pieno di vita e capace di goderla, e con essa l’eros e lo scherzo. E resterà generoso in ogni senso e verso tutti. Nel capolavoro è, coi suoi personaggi, un ritratto dell’essere umano nella sua interezza, dall’abbietto al sublime. E una capacità di raccontare il fatto drammatico mentre si svolge, la musica da rappresentazione ideale fatta azione, non inferiore a quella di Mozart. ossessione dionisiaca In Rossini la categoria del comico ha anche qualcosa di antipsicologico, di meccanico, sino alla disumanizzazione In ciò, egli è l’erede della Commedia napoletana di Cimarosa e Paisiello, e lo porta alle estreme conseguenze. Il comico ha qualcosa, pure, di un’ossessione dionisiaca, come si vede nell’ebrezza ritmica dei Finali - anche di alcune Opere tragiche. È quella che Stendhal chiama «une folie organisée et complète». E sì che Rossini, almeno stando alla sua estetica, è artista apollineo per eccellenza. La feconda contrapposizione delle due categorie, che poi si fondono in superiore unità, era perfettamente presente al mondo antico: Nietzsche l’ha da ultimo teorizzata. Rossini eredita un eterno dualismo da quel sommo artista che è. Ancora, la categoria del comico passa per Rossini attraverso un grandioso grottesco. Mustafà, Taddeo, Don Magnifico. Vediamo la complessità artistica d’un genio. Non basta. L’ultima Opera comica del Maestro è in francese, Le comte Ory. È una scettica commedia di costume (come lo era Il Turco in Italia: ch’è cosa diversissima dall’Italiana in Algeri con la quale ingenerosamente si volle all’inizio confondere) e in costume. La finezza, la satira, il doppio fondo erotico d’un’arditezza senza pari (è anche mimato in scena un eros omosessuale involontario), ne fanno un unicum. Anche per la satira degl’ideali del Romanticismo francese: il neo-cattolicesimo della Restaurazione, il Medio Evo, le Crociate. Una compagnia di libertini penetra in un castello francese, il proprietario del quale è impegnato nella santa impresa: i libertini sono travestiti da monache. Se Nietzsche l’avesse conosciuto, ne avrebbe fatto l’emblema d’una divina levità del genio capace di dire danzando cose profondissime. Accanto a questo, c’è il legislatore della forma melodrammatica che regge tutto l’Ottocento, persino fino all’Otello di Verdi e al Lohengrin di Wagner. E v’è, dopo Spontini, il definitivo inventore del Grand-Opéra francese. Il suo culmine, il Don Carlos di Verdi (1867), nasce dal Guillaume Tell. Nell’intervallo ci sono decine di Opere di tanti: il tramite più alto sarà Donizetti; il genere continuerà a lungo.
«FAVOLA BOSCHERECCIA»
E c’è il Rossini Autore tragico. Il Tancredi, che affascinò Goethe e da lui venne definito ?favola boschereccia?, con ciò genialmente ascritto all’ethos pittorico di Poussin. L’Otello, la prima Tragedia musicale della storia autenticamente shakespeariana. L’incanto tassesco dell’Armida. L’incanto ariostesco (quanto a ethos) di Ricciardo e Zoraide. V’è il Mosè in Egitto che, divenuto un’Opera francese, fu il solo capolavoro non comico del Maestro restato in repertorio nel Novecento. V’è la Tragedia storica Maometto II, dedicata all’assedio dei turchi della veneziana Negroponte, che si termina con le luttuose ?nozze di sangue?, le quali strapperebbero le lacrime anche alle pietre. Anch’essa venne profondamente rielaborata in francese, e fu la prima delle tre Tragédies rappresentate all’Opéra, sotto il titolo de Le siège de Corinthe. V’è il romanticismo di Walter Scott de La donna del Lago. Vi sono due Tragedie classiche, l’Ermione e la Zelmira: la prima da Euripide e dall’Andromaque di Racine. V’è la colossale Semiramide, con la quale il Maestro chiude la carriera italiana. Nove vennero create per Napoli. Il soggiorno napoletano, dal 1815 al 1822, durante il quale egli scrisse venti delle sue Opere, sebbene non tutte fossero per Napoli, fu la rivelazione di Rossini a se stesso, e durante il suo corso avvenne l’incomparabile ulteriore sua crescita artistica e culturale. Naturalmente, solo a un genio senza confronti è dato trar profitto, moltiplicato, dall’influenza culturale di un ambiente. Napoli, insieme con Milano, era la capitale culturale europea. La scelta dei soggetti è incredibilmente ardita e varia; gli autori dei poemi drammatici sono letterati di alta sfera. È straordinario vedere un compositore a contatto sia con le più nuove tendenze del gusto, da Shakespeare al Medio Evo, sia con il mondo classico in un modo affatto diverso dagli stereotipi settecenteschi del pur sublime Metastasio. È affine a quello di Goethe. Eppure erra la musicologia a considerar Rossini un compositore romantico, pur avendo egli al Romanticismo musicale aperto la via; è l’esponente di una fase classico-romantica nella quale i due poli si contrappongono e si alternano nella più feconda condivisione. Ora torniamo al “silenzio”. La prima causa l’abbiamo individuata. Troppo intelligente, Rossini, troppo alto il suo ideale artistico. Ma pensiamo, anche, a un uomo che in diciannove anni scrive trentotto Opere: alcune di dimensioni e impegno giganteschi. Ha trentasette anni. Una psiche logorata da uno sforzo eccessivo. Viene preso da una forma di gravissima depressione. Un altro carattere, meno aristocratico, avrebbe osteso il suo dolore. Rossini preferì celarlo, travestirlo. Fingersi cinico piuttosto che confessarsi dolente. Nell’epoca nella quale il tormento dell’artista era la grande moda. Fratello di Leopardi, Gioacchino la Moda la odiava. In uno dei Dialoghi delle Operette Morali, è definita sorella della Morte e di lei più pericolosa. Rossini avrebbe potuto scriverlo. (fine)