La Stampa, 5 novembre 2018
Gli Stati che non esistono
Un nuovo fantasma si aggira per l’Europa e questa volta si tratta di Stati che non esistono, nuove «Zone Grigie» che un po’ alla volta stanno ridisegnando confini ritenuti intangibili dalla Seconda Guerra Mondiale.
Con l’annessione russa della Crimea e l’intervento militare nel Donbass (Donetsk e Luhansk), sono nate altre tre entità non riconosciute che si vanno ad aggiungere alle quattro già esistenti da alcuni anni: la Transnistria, l’Abkhazia, l’Ossezia del Sud e il Nagorno-Karabakh.
Sono veri e propri «Stati fantasma» che vivono in una sorta di limbo: hanno governi, parlamento, ministeri, esercito e valuta propri; rilasciano passaporti; instaurano relazioni politiche e diplomatiche con Paesi terzi. Ma nonostante ciò sono tagliati fuori dal resto del mondo: nei loro territori non funzionano le carte di credito internazionali, le assicurazioni le considerano aree off-limits, gli accordi e le regole internazionali non vengono applicati.
Sono dunque entità statuali totalmente al di fuori della legalità internazionale e rappresentano una minaccia per la stabilità di una vasta area fra il confine orientale dell’Unione Europea, il Mar Nero e il Caucaso. Si tratta di fatto dei protettorati della Federazione Russa che, in ognuno di essi, conserva basi militari e truppe e rappresentano uno dei motivi di maggiore attrito fra l’occidente e la Russia.
Come ama ripetere spesso Vladimir Putin «la dissoluzione dell’Unione sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo». Questa considerazione è stata la stella polare che ha ispirato una parte rilevante delle sue scelte in politica estera degli ultimi quindici anni. Così si spiegano molte iniziative per riconquistare lo spazio sovietico perduto: la Comunità degli Stati Indipendenti, che unisce nove delle quindici ex Repubbliche sovietiche; la Shanghai Cooperation Organisation, nata per tentare di includere anche la Cina in uno spazio comune di sicurezza; la più recente Unione Economica Euroasiatica (con Kazakhstan, Kirghizistan, Bielorussia e Armenia); l’Eastern Economic Forum di Vladivostock.
Ma, accanto a queste iniziative di carattere politico-diplomatico, gli anni di presidenza Putin sono stati anche caratterizzati da azioni politico-militari molto aggressive, con lo scopo a destabilizzare le componenti più inquiete dell’ex spazio sovietico a cominciare da Georgia e Ucraina per finire alla Moldavia e all’Azerbaijan.
La retorica e la propaganda utilizzate di Mosca per giustificare gli interventi armati ha quasi sempre richiamato l’urgenza di difendere gli interessi delle minoranze russe: una retorica che ricorda la vicenda dei Sudeti, quando la Germania nazista giustificò l’aggressione della Cecoslovacchia con le presunte vessazioni subite dalla minoranza tedesca.
La guerra dimenticata
Poco dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica iniziarono le prime operazioni militari oltre confine: nel 1990 la quattordicesima armata dell’esercito russo nell’Est della Moldavia, combatté contro le truppe moldave e romene in una guerra europea poco conosciuta, che in due anni provocò oltre 5.000 morti e la nascita della piccola Repubblica della Transnistria, oramai indipendente de-facto da quasi trent’anni.
Fra il ’92 e il ’94 fu la volta del conflitto fra Armenia ed Azerbaijan con la nascita della Repubblica del Nagorno-Karabakh (oggi ribattezzata Artsakh). Ma la vera prima prova di forza fra Mosca e l’occidente fu nell’agosto del 2008, quando le truppe russe invasero la Georgia, il cui governo aveva l’obiettivo di portare il Paese nell’Ue e poi nella Nato. La breve guerra provocò la nascita delle repubbliche di Abkhazia e Ossezia del Sud, subito riconosciute da Russia, Venezuela e Nicaragua.
Ma il caso più eclatante è rappresentato dalla regione del Donbass, nell’Ucraina orientale. In prospettiva una possibile adesione di Kiev all’Alleanza Atlantica, Putin ordinò l’invasione della Crimea e la promozione di un referendum per l’annessione alla Russia. Ma il progetto era ancora più ambizioso: dilaniare l’Ucraina promuovendo la nascita della «Novorossiya», un nuovo Stato nel quale ospitare tutta la componente russofona dell’Ucraina. Per raggiungere l’obiettivo, la Federazione Russia non ha lesinato mezzi economici e militari ai governi delle autoproclamate Repubbliche Popolari di Donetsk e di Luhansk.
Il progetto della Novorossjya è fallito grazie all’inaspettata reazione militare ucraina, che ha confinato le forze russe nella parte orientale del Paese, unitamente alla reazione di Usa ed Europa che hanno promosso un regime di sanzioni senza precedenti nei confronti della Russia. Oltre 1,5 milioni di profughi e più di 10.000 vittime, fanno del Donbass un pericoloso conflitto europeo che ha già prodotto più di una tragedia «collaterale»: il 17 luglio un missile terra-aria SA-11 di fabbricazione russa e lanciato dalle milizie di Donetsk, colpì l’aereo della Malaysia Airlines in volo fra Amsterdam e Kuala Lumpur uccidendo 298 civili, perlopiù famiglie di turisti olandesi.
Il conflitto senza fine
Nonostante gli accordi di Minsk, nel Donbass si muore ancora: anche se è un conflitto a bassa intensità, ogni giorno si registrano vittime civili e militari da entrambe le parti e a fine agosto il Presidente dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk, Alexander Zakharchenko, ha perso la vita in un attentato nel centro della città.